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Segni di vita

Regia di Werner Herzog vedi scheda film

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EugenioRadin

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Segni di vita

di EugenioRadin
10 stelle

Dove sono i “segni di vita” o meglio, cos’è la “vita” in questoLebenszeichen, primo lungometraggio di quel grande cineasta che è Werner Herzog?
Darò subito la risposta: la vita è qui intesa come “dinamitismo” nicciano, come esplosione di volontà di potenza, come capacità, oltre che volontà, di vivere superando gli schemi e le categorie precostituite della vita.

La trama è semplice: durante il secondo conflitto mondiale il giovane soldato tedesco Stroszeck, a causa di alcune ferite riportate sul campo, viene mandato assieme alla moglie e ad altri due soldati sulla (eccessivamente) calma isola di Kos, a trascorrere l’ultima parte della guerra, in quella che appare come un’oasi di tranquillità e pace. Ma l’eccessiva inattività e solitudine, nonché alcuni fatti avvenuti, condurranno Stroszeck alla follia, al rifiuto di ogni altro-da-sé e alla dichiarazione di una solitaria guerra contro il mondo intero.

 

Ma la guerra che il protagonista (e che Herzog) compie è poi una ribellione contro la mancanza di ideali veri in cui credere e contro altri ideali morti, vecchi e impossibili (la guerra sembra non essere altro che un gioco da tavolo, un gioco di ideali imposti, di preconcetti universalmente accettati). E’ un tentativo di distruggere le fondamenta di una civiltà governata dal male. E’ il sintomo di un’apparente follia, di una crisi identitaria e di una malattia che forse (come ci suggerisce una canzone che qualcuno conoscerà) “è tutt’altro che folle: è un eccesso di lucidità”. E’ una titanica e donchisciottesca guerra contro il mondo e al contempo contro nessuno, una guerra persa in partenza, ma non per questo indegna di essere giocata. E' inoltre una guerra contro se stessi (“Sono rimasto solo contro me stesso”), una mutilazione di una parte del proprio corpo governata dal senso comune. 
E’ poi essenzialmente l’incapacità di accettare una propria posizione e l’impossibilità di accettarsi come ente limitato. Si rende dunque necessaria una distruzione per far (ri)emergere ciò che sta al di là delle cose, dietro all’apparenza. Da qui l’iniziale metafora con la dinamite nicciana.

 

Non a caso nel finale Stroszeck diventa metaforicamente un fuoco d’artificio, uno spettacolo pirotecnico. Sta in questa sequenza la genialità di trasformare la guerra in uno spettacolo artificiale. Lospettacolo diventa l’arma primaria, l'uomo finalmente strappato fuori dalla prigione del corpo diventa nient'altro che movimento, l’atto di sfida e di guerra contro un mondo in guerra con se stesso, il simbolo di quella bellezza che, così si dice, salverà il mondo.

 

La storia (forse il mito) del Don Chisciotte che muove, in uno stato di apparente pazzia, una solitaria guerra contro la corruzione e il male, è splendidamente evocata in una sequenza in cui Stroszeck ammira una vallata di mulini. Qui si sente echeggiare il suono del vento, il suono dell’aria e dunque, in un certo senso, il suono del nulla: quel nulla che governa le nostre esistenze, quel nulla che fa da sfondo alla nostra vita, che disegna i nostri contorni. Non a caso è proprio in questa contemplazione che il protagonista avverte i primi sintomi dello squilibrio liberatore. E’ qui che inizia a voler essere altro-da-sé. E’ qui che si esprime per la prima volta la volontà di uscire da quello stato di ipnosi e da quel giro attorno allo stesso cerchio che caratterizzano l’uomo.

 

Quella di Stroszeck è anche una guerra contro il Male che pare governare il mondo e che viene qui evocato in particolare in due sequenze, che voglio mettere in luce:
la prima è quella in cui vengono disseppelliti da uno dei compagni di Stroszeck dei reperti archeologici che sembrano riportare dei fatti violenti avvenuti nell’isola. “I greci non erano così” esclama uno dei soldati, ma ciò che Herzog ci vuole comunicare e far sentire sulla pelle è quell’ereditarietà della violenza che ci trasciniamo dietro. Il fatto che la violenza sia probabilmente insita nell’uomo sin dai tempi antichi, che sia, più che un vizio, una caratteristica tipica dell’umanità.

 

La seconda sequenza degna di nota è quella in cui uno zingaro regala ai protagonisti una piccola statuetta di legno che viene mossa dal volo di una mosca al suo interno.
Se è la mosca di goldinghiana memoria a fungere da motore meccanico ad una piccola marionetta, allora è il Signore delle Mosche, immagine metaforica del Male assoluto, a muovere gli intenti degli uomini. Non a caso in alcune sequenze è inserito come sottofondo il ronzio di numerosi insetti.
La mosca è anche il simbolo della trasformazione dell'uomo in unaltro-da-sé malvagio e inumano, quella mosca che diventa uomo nuovo, ma che finisce per annientare la stessa natura umana nonché il corpo che la ospita, come ci ricorda il Seth Brundle di Cronenberg.
E’ da notare per altro che in questo lungometraggio il male non è attribuito soltanto all’uomo ma anche alle sue opere, come a dire che tutto ciò che l'uomo opera è destinato ad essere parte del male: è simbolo di questa malvagità la fortezza che i soldati e Stroszeck devono sorvegliare (“questo posto è malvagio!”) e perfino alla musica, generalmente considerata una delle opere più alte dell’uomo, tanto che Chopin viene definito: un uomo profondamente malvagio.

 

Ciò che la pellicola ci suggerisce è che siamo governati da un’essenza malvagia che è quella che Stroszeck intravede e della quale cerca di liberarsi, in una missione che, se il narratore dichiara "miseramente fallita", è in realtà vinta, ma impossibile a capirsi dall'umanità ancora schiava di se stessa.

E’ uno squisito inno alla libertà ciò che Herzog ci dona in questo gioiello. Una libertà contro i pregiudizi, contro i dogmi e gli obsoleti ideali, una libertà contro una fissa posizione, contro una maschera sociale e contro se stessi. Infine una libertà contro quel signore delle mosche che dai tempi di Faust governa l’uomo.  

 

Spero mi perdonerete se voglio concludere questa recensione con una frase non mia, ma di William Golding, colui che nel suo romanzo:Lord of flies mise in evidenza più di ogni altro il potere antico che il male esercita sull’uomo:

“La testa ghignava divertita nella luce strana. Ignara delle mosche, delle budella ammucchiate, ignara perfino dell’oltraggio di essere infilata su un bastone. Le mosche erano innumerevoli, nere e d’un verde iridescente; e di fronte a Simone il Signore delle Mosche ghignava, infilzato sul bastone. Alla fine Simone cedette e riaprì gli occhi: vide i denti bianchi, gli occhi velati, il sangue… e restò affascinato, riconoscendo qualcosa di antico, di inevitabile. Sulla tempia destra di Simone, una vena cominciò a pulsare, sul cervello.” (William Golding - Il Signore delle Mosche)

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