Regia di Brady Corbet vedi scheda film
«Nessuno è più schiavo di chi si crede libero senza esserlo».
Qualsiasi sia l’ambiente preso in considerazione, sussistono dei rapporti di forza e dei processi che tendono a ripetersi seguendo dei leitmotiv accomunati da molteplici similitudini. Così, quello che all’inizio può apparire come un sogno che finalmente si realizza, in seguito viene infestato da fattori non presentati/preventivati, le persone che in un primo momento ti hanno accolto a braccia aperte, poi fanno emergere un lato diverso della loro natura e di mezzo rientrano sempre gli stessi ostacoli. Ad esempio, il vile denaro, l’influenza di chi in principio se ne è stato in silenzio, oppure di chi subentra, senza dimenticare gli imprevisti, non calcolabili tuttavia in grado di sferrare colpi mortali.
Ebbene, mentre il protagonista di The Brutalist barcolla più volte, il suo regista vede ricompensati degli sforzi immani, con tanti anni di studio e ricerche approfondite, per non parlare di quanto avvenuto dopo, come la complicata individuazione dei finanziatori (anche loro - alla fine - ne sono usciti con abbondanti dividendi). Insomma, a soli 36 anni Brady Corbet concepisce e realizza un’opera autorevole e viscerale che disintegra qualsiasi logica algoritmica, una tra le poche di questi anni che ha la quasi matematica certezza di essere ricordata vita natural durante.
Stati Uniti, 1947. L’ungherese di origine ebraica László Tóth (Adrien Brody – Il pianista, Detachment) comincia una nuova vita dopo essere uscito vivo per miracolo dai gironi infernali dei campi di concentramento nazisti. Accolto calorosamente dal cugino Attila (Alessandro Nivola – Face/off, Laurel Canyon), finisce in mezzo alla strada dopo un lavoro di arredamento - commissionato da Harry Lee Van Buren (Joe Alwyn – Billy Lynn, Harriet) - finito male. Per sua fortuna, in seconda battuta viene rintracciato dal facoltoso Harrison Lee Van Buren (Guy Pearce – Memento, The rover) che, ammirando il talento espresso in precedenza, gli offre un’occasione imperdibile, ovvero quella di progettare e realizzare una struttura polifunzionale all’interno della sua proprietà.
Il progetto riscuote un’ammirazione subitanea e totale ma, durante la sua esecuzione, la situazione cambia radicalmente. Nonostante László riesca finalmente a ricongiungersi con sua moglie Erzsébet (Felicity Jones – Rogue one, La teoria del tutto) e la nipote Zsófia (Raffey Cassidy – Vox Lux, Il sacrificio del cervo sacro), non troverà pace e dovrà subire svariati attacchi/interferenze, che lo segneranno profondamente ma che non cambieranno il suo modo di vedere l’arte (e non solo).
The Brutalist (2024): Adrien Brody
Ricoperto di premi a cominciare dalla sua presentazione veneziana (dove, con ogni probabilità, avrebbe meritato di più), The Brutalist è un’opera ostinata e travagliata che si distingue da tutte le altre sue coeve, che non conosce compromessi, spiazzante e pletorica, colma di qualità e di caratteristiche che non si piegano alle esigenze di mercato. Girata in soli 34 giorni effettivi e con un budget inferiore ai 10 milioni di dollari, che sembrano molti di più, rappresenta per il suo autore Brady Corbet (L’infanzia di un capo, Vox Lux) un autentico e imprevedibile salto triplo nella carriera.
Una visione estremamente ambiziosa, all’interno della quale l’impegno prevale – di gran lunga – sui mezzi a disposizione, un’esperienza che viaggia in una dimensione pienamente identificabile ma comunque sia a sé stante, che discute di arte e di violenza (perlopiù psicologica ma non manca neanche quella fisica), di immigrazione (per quanto sia possibile integrarsi, ci sarà sempre chi ti ricorderà – puntando il dito - il tuo status di origine) e di capitalismo (chi comanda, prima o dopo farà prevalere la sua posizione privilegiata), di erosioni (nella libertà consentita) e di resistenza (c’è chi, nonostante le difficoltà, non molla mai), del sogno americano e delle contraddizioni insite nel modello sociale occidentale, che sfrutta ed espelle, che offre enormi opportunità per poi toglierti il piatto da sotto il naso.
Contraddistinto da proprietà artistico-intellettuali che sconfinano dagli usuali paletti, vanta un formato extra large che lascia ripetutamente il segno, con squarci oscuri intervallati da scampoli abbaglianti, geometrie marmoree e affondi che smembrano le esistenze, con un percorso che prende svincoli/deviazioni stordenti (vedasi la straordinaria trasferta a Carrara) e che sciorina intuizioni possenti (verbigrazia, come viene mostrato l’incidente ferroviario che stravolge parecchie cose).
Una comunione d’intenti che in buona parte viene da lontano, impreziosita dall’aiuto alla scrittura di Mona Fastvold (Il mondo che verrà), da una fotografia – di Lol Crawley (Rumore bianco, Le strade del male) – e da un montaggio - di Dávid Jancsó (Monkey man, Pieces of a woman).- che individuano/valorizzano equilibri affascinanti e ipnotici, al pari di un impianto sonoro – di Daniel Blumberg (Il mondo che verrà) – che alimenta/accompagna sensazioni stridenti/disturbanti.
Infine, un altro grande applauso va necessariamente assegnato agli interpreti. Adrien Brody è sottoposto a molteplici pressioni e offre una prova intensa e sofferta, spigolosa e tormentata, memorabile e iridescente, da primo della classe (l’Oscar è praticamente certo), Guy Pearce sostiene confronti dalla non facile lettura, mentre a turno Alessandro Nivola, Felicity Jones, Joe Alwyn e Raffey Cassidy (i suoi silenzi uniti agli sguardi sono di devastante purezza) riempiono e completano la scena.
The Brutalist (2024): Adrien Brody, Guy Pearce
In definitiva, un film sapido e annichilente come The Brutalist, che vuole fare di più e in modo diverso dal resto della comitiva, non si vede di frequente. Un fine/impegnativo lavoro di critica e di pensiero, con elementi strutturali in rilievo visivo/umano, momenti indimenticabili e una complessiva ampia portata che intercetta/interseca/sparpaglia una mole spropositata di argomentazioni.
Tra subbugli interiori ed effetti collaterali, arcobaleni e punti di rottura insanabili, bellezza e sofferenza, artisti e mecenati, dipendenze e cattedrali, antefatti e prospettive, speranze e alterazioni, capri espiatori e mancate comprensioni, separazioni e ricongiungimenti, per un peso specifico che sfugge con inaudito/ammirabile coraggio dalle consuete/sterilizzate abitudini.
Corposo e radicale, disallineato e stratificato, un poema in piena regola che si riverbererà nel tempo.
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