Regia di Michele Riondino vedi scheda film
Taranto, fine anni '90 del XX secolo. Nel più grande impianto siderurgico europeo si consuma un conflitto di classe e un operaio diventa lo strumento che il padronato usa per controllare i lavoratori che non vogliono sottostare alle "regole aziendali". Carlo Marx sembra davvero passato invano...o forse no!
“Qua non ci sta manco una fabbrica di forchette e siamo l'azienda che produce più acciaio in Europa. Sai perché? Perché noi non ci arricchiamo. Noi produciamo ricchezza per gli altri e a noi rimane solo la monnezza”.
Michele Riondino si fa beffe dell'espressione “nemo propheta in patria” e per il suo esordio alla regia sceglie di raccontare una storia ambientata nella sua città, Taranto. Anzi “la storia” per eccellenza della città pugliese, almeno per quel che riguarda la seconda metà del XX secolo: la storia del più grande polo siderurgico italiano, anzi d'Europa.
Ma questo film non è un documentario e l'occhio di Riondino si focalizza su un determinato periodo, forse il peggiore nella storia dello stabilimento: il passaggio dalle mani pubbliche a quelle del più grande gruppo siderurgico privato italiano.
E, come spesso accade in questi casi, al cambio di proprietà segue nell'immediato una riorganizzazione delle struttura aziendale, terminologia elegante dietro cui molto (troppo) spesso si nasconde la fregatura per i lavoratori; che in questo frangente si concretizza in un demansionamento del personale più qualificato.
Dipendenti con specifiche competenze tecniche, amministrative, informatiche che all'improvviso si trovano sotto ricatto: se vogliono continuare a lavorare devono accettare la “riqualificazione” come operai, una mansione che richiede esperienze e abilità di cui queste persone sono totalmente sprovviste, con conseguenze che potrebbero rivelarsi molto pericolose per l'incolumità dei lavoratori stessi.
E quelli che non accettano le condizioni della nuova proprietà vengono relegati in uno squallido edificio fatiscente, la Palazzina Laf che dà il titolo al film, e lì obbligati a trascorrere la giornata lavorativa nella più totale apatia, privi di qualsiasi mansione, umiliati e privati della loro dignità.
Ed è qui che entra in scena il protagonista, cui dà vita lo stesso regista: Caterino Lamanna. Operaio manutentore, viene contattato da un viscido dirigente, interpretato da un Elio Germano forse un po' troppo sopra le righe (ma, bisogna ammetterlo, comunque efficace nel dare forma ad un personaggio di desolante squallore morale) e, dopo una promozione a capo turno, spedito nella palazzina dei reietti col compito di riferire al dottor Giancarlo Basile (ovvero il personaggio di Germano) ogni parola che viene detta, nel tentativo di controllare una situazione a dir poco esplosiva.
Da lì partono le vicende in bilico tra il dramma e la commedia, che sfoceranno in un finale amaro nonostante una parziale rivincita degli esclusi che vedranno, almeno in parte, riconosciute da un pubblico ministero scrupoloso le loro ragioni.
Nonostante una durata piuttosto contenuta, il film riesce a toccare le diverse tematiche legate alla presenza di un impianto produttivo mostruoso (oltre 15 km quadrati di superficie) imposto ad una regione che non aveva certo una tradizione industriale.
Il degrado dell'ambiente naturale, i problemi legati all'inquinamento ed il conseguente ed inevitabile impatto sulla salute (alcune scene fanno intuire che Caterino si sta ammalando), e ovviamente il mobbing, parola che all'epoca dei fatti (siamo nel 1997) era pressoché sconosciuta ma che proprio a partire da quel caso cominciò a conoscere una triste notorietà: questi sono gli elementi che catturano immediatamente l'attenzione dello spettatore.
Ma una lettura più attenta della vicenda ne fa percepire altri che emergono tra le righe della sceneggiatura: ad esempio la contrapposizione mai sorpassata (e pure incentivata dalla classe dirigente) tra operai e impiegati. In più di un passaggio Caterino, personaggio privo della pur minima cultura, ostenta un malcelato disprezzo verso gli “impiegati” (“che non fanno un c... tutto il giorno” come ribadisce anche in una delle scene conclusive, quella del dibattimento in tribunale) non rendendosi conto che si tratta di lavoratori esattamente come lui, e che ben altro (e a ben più alto livello) è il nemico contro cui combattere.
E, sempre ad esempio, il rapporto conflittuale con i sindacati, che a livello di trattative con la dirigenza sottoscrivono accordi che si rivelano poi, nell'applicazione concreta, deleteri per i lavoratori, a cui però fa da contraltare la figura del sindacalista (ben interpretato da Fulvio Pepe) che cerca di difendere gli emarginati della Palazzina Laf rischiando di compromettere la sua stessa presenza in fabbrica.
Un film importante quello di Riondino, un'opera che si inquadra nella miglior tradizione del cinema di impegno civile, in grado di suscitare lo sdegno dello spettatore verso una classe imprenditoriale che negli anni ha sempre pensato al profitto ignorando (o meglio, fingendo di ignorare) il fatto che i lavoratori sono prima di tutto essere umani, anzi negando la loro stessa umanità.
Quella umanità che invece si fa largo anche in Caterino, ad un certo punto attratto dalla possibilità di un mondo migliore rappresentata dall'impiegata delle risorse umane (Marina Limosani), stretta collaboratrice di Basile e inaspettatamente scaraventata nel girone infernale della Palazzina, che lui prende sotto la sua ala protettrice e verso la quale lascia trasparire un sentimento (la scena della canzone e del ballo).
Quella umanità che sembra mancare invece del tutto nello squallido dottor Basile, servo di un ceto padronale privo di scrupoli.
Nota a parte per le buone intepretazioni di Vanessa Scalera (volto noto di fiction televisive) e Michele Sinisi, quest'ultimo nel ruolo di Aldo Romanazzi, non solo collega ma anche amico di Caterino, nonché autore della frase riportatata all'inizio, e da ultimo per il bel pezzo musicale conclusivo, La mia terra, di Diodato.
Un film indispensabile dunque, che si fa perdonare anche qualche ingenuità nello sviluppo della storia. Ma un film assolutamente da vedere
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