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I Tenenbaum

Regia di Wes Anderson vedi scheda film

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La recensione su I Tenenbaum

di FilmTv Rivista
8 stelle

I padri sono portatori di un amore sano e imperfetto e Royal (un Gene Hackman prodigioso) è inaffidabile e cordiale, mascalzone e dolce, canaglia e comprensivo. La famiglia è una cellula anomala e bizzarra. È un set privilegiato dell’analisi, della letteratura e del cinema. Fa, per questioni di dote e corredo (genetico), spettacolo. Le stanze dei figli e quelle dei genitori sono riproduzioni di cataloghi di oggetti, di enciclopedie cognitive, di collezioni di dischi, di copertine di libri. L’ineffabilità dei Tenenbaum non è l’orgoglio spigoloso degli Amberson e ha il talento finanziario di Chas (Ben Stiller con figli al seguito, antichi rancori, tuta rossa come vestito abituale e nell’armadio c’è anche una tuta da lutto), la vocazione di scrittrice per il teatro di Margot (Gwyneth Paltrow, pelliccia indossata come un accappatoio, occhi bistrati, molletta rossa tra i capelli, dito di legno, un marito neurologo alle prese con esperimenti incomprensibili), l’agilità del campione di tennis di Richie (fascia da competizione sulla fronte, innamorato infelice della sorellastra Margot, falconiere, imbarcato, per dimenticare, sulle navi da crociera). Royal e la moglie Etheline (Anjelica Huston) sono separati da anni. Quando Etheline accetta la corte e la proposta di matrimonio del commercialista di fiducia Henry (Danny Glover), i debiti e un imprevisto impulso, da padre, da nonno e da fallito rilassato e mai disperato, spingono Royal a fingersi malato, a rientrare a casa, a riunire i pezzi sparsi e i tanti capitoli del romanzo familiare. Wes Anderson al terzo film (uno dei picchi del cinema hollywoodiano recente), scritto con l’amico Owen Wilson (il Cash, tossicomane, scrittore di libri stroncati dalla critica, amante di Margot, compagno d’infanzia dei tre tristi bambini prodigio e con l’unico desiderio di essere un Tenenbaum) mette in posa l’impossibilità della cosiddetta normalità e della presunta eccezionalità in una commedia sullo sconforto. Essere in una realtà che somiglia alla pagina di un libro, a una canzone dei Beatles o dei Rolling Stones, in una ballata di Bob Dylan o in un brano di Satie, ad una illustrazione del “New Yorker”, ad una parata di goffaggine, gaglioffaggine e genialità dell’ordinario. Anderson impagina i suoi personaggi (gli attori sono sublimi) come l’autore di un raffinato, snob, stupendo volume fotografico su quadri (la geometria e la gerarchia nelle inquadrature è tutta da studiare e da apprezzare) di un’esposizione a New York. Ritratti e autoritratto di un artista, da giovane.

 

Recensione pubblicata su FilmTV numero 14 del 2002

Autore: Enrico Magrelli

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