Regia di Jessie Nelson vedi scheda film
Si chiama Sam: è un padre affettuoso, attento, giocherellone, ma mentalmente fermo all’infanzia. La sua bambina tra poco sarà più grande di lui. La mamma se n’è andata appena uscita dalla clinica, abbandonandolo alla fermata dell’autobus con il suo fagottino in braccio. E qualcuno si chiede se la bambina, che ha 7 anni, è intelligente e creativa, non dovrebbe essere affidata a un’altra famiglia. “Mi chiamo Sam” percorre le traversie legali e affettive di un disabile che ha in corpo del genio e una quantità d’amore straripante, lungo la linea della commedia drammatica familiare che affascina il cinema americano indipendente di oggi. Parte bene, con la macchina da presa che segue le mani di Sam intento a riordinare le diverse bustine di zucchero della tavola calda dove serve ai tavoli, accattivante, come la colonna sonora tutta Beatles che l’accompagna. E Sean Penn è bravo, probabilmente un po’ penalizzato dal doppiaggio. Ma poi il film di Jessie Nelson si incaglia nella battaglia legale (dove l’avvocato Michelle Pfeiffer fa Michelle Pfeiffer), sempre indeciso se insistere sui sentimenti o seguire lo stile instancabile degli indipendenti. Il problema è tutto di regia: troppo alla moda per regalare emozioni, troppo insignificante per aprire veri squarci problematici.
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