Espandi menu
cerca
I banchieri di Dio

Regia di Giuseppe Ferrara vedi scheda film

Recensioni

L'autore

LorCio

LorCio

Iscritto dal 3 giugno 2007 Vai al suo profilo
  • Seguaci 145
  • Post 34
  • Recensioni 1625
  • Playlist 251
Mandagli un messaggio
Messaggio inviato!
Messaggio inviato!
chiudi

La recensione su I banchieri di Dio

di LorCio
6 stelle

Giuseppe Ferrara è uno testardo, si sa. Sono più famosi i suoi film rispetto a lui ed hanno sempre suscitato una marea di polemiche da parte di certa politica e molte perplessità nelle file della critica cinematografia: Il caso Moro e Giovanni Falcone valgano da esempi emblematici. Lo si accusa da sempre di superficialità e rozzezza della messinscena, pretenziosità dei fatti narrati, dialoghi tagliati con l’accetta, personaggi famosi imitati alla Bagaglino. Non fece eccezione nemmeno questo I banchieri di Dio, uscito nel 2002 e subito fatto sequestrare dall’autorità giudiziaria dopo la querela esposta da Flavio Carboni. Un film, prima di tutto, sofferto: erano quindici anni che Ferrara cercava di portare sullo schermo gli ultimi mesi di Roberto Calvi, presidente del Banco Cattolico Ambrosiano. Non tanto per la vicenda umana in sé per sé, quanto per gli intrighi di palazzo effettuati dalle eminenze grigie della politica (Andreotti), da prelati dalla dubbia condotta morale (Marcinkus), gran maestri e burattinai (Licio Gelli), i rapporti con la massoneria, la P2, la finanza laica e quella cattolica, la mafia, i servizi segreti, i paesi sudamericani…

 

C’è tanta carne al fuoco -cucinata grazie ai documenti giudiziari in possesso e non tesi infondate-, capace di spiazzare lo spettatore che non riesce a tenere più di tanto il filo del discorso. Ci sono tanti personaggi pubblici (ci sono anche Forlani, Sindona, Rosone, Senatore, Craxi, persino Wojtyla, del quale non vediamo il volto “per doveroso rispetto”) e altri meno celebri ma ugualmente influenti (il faccendiere Carboni, il misterioso Pazienza, lo scagnozzo Vittor), in questa torbida storia italiana, un vero mistero del quale non conosciamo ancora molto e sembra la rottura di un equilibrio che si era creato con facilità e appoggio dall’alto. Il caso Calvi, per l’appunto, il ritratto di un uomo che si ritrova in un gioco più grande di lui, dal quale non riesce ad uscire (ma lui ne vuole uscire?).

 

La sceneggiatura di Armenia Balducci e Ferrara riflette molto sulla vicenda umana del protagonista, sembra quasi prendere, se non le sue difese, il suo punto di vista, lucido e terrorizzato, determinato e ingenuo. Ed è questa la parte più riuscita della pellicola, poiché in quelle più puramente politiche-finanziarie non si capisce se vuole essere didattico o no e a Calvi viene subito assegnato il ruolo della vittima (ma in realtà lo fu anche di se stesso) di un sistema malato, un mare aperto dove squali d’alta finanza, porporati e in borghese, lottano per la sopravvivenza di se medesimi e dei propri accordi. Certo, i dialoghi sono, in generale, un po’ leziosi, ma è indubbio il lavoro fatto in sede di sceneggiatura di compressione, sintesi degli eventi. Anche se non è un film di denuncia come sbandierato nel trailer, ma una precisa e valida rappresentazione dei fatti, contraddistinto da uno stile quasi da fiction, il film non è male, si lascia vedere e inquieta pure, va lodato per il coraggio e la passione (nonché per la cocciutaggine del regista).

 

E, come già detto, se il risvolto umano della storia è quello più convincente, è anche merito del protagonista. Il ruolo doveva essere sostenuto da Gian Maria Volontè (chissà che sarebbe stato Calvi, uomo basso e pelato, interpretato dal divino GMV, alto e aristocratico), ma ha trovato nel grande Omero Antonutti un interprete efficace, sofferto, raffinato e intenso, assai somigliante al banchiere, ingiustamente ignorato dai premi nazionali. Così come l’ammirevole Pamela Villoresi, moglie comprensiva e battagliera. Macchietistico ma riuscito il Carboni di Giancarlo Giannini, avvolto da un fascino sinistro il Pazienza di Alessandro Gassman. Si rivede Rutger Hauer come Marcinkus mentre stendiamo un velo pietoso sulle imitazione del divo Giulio, di Craxi, di Wojtyla di spalle etc. Dense note di Pino Donaggio. Nonostante non sia un capolavoro, è un discreto film che andrebbe rivalutato. Frase emblematica che va ricordata: “Purtroppo, qualche volta, siamo in democrazia”.

Ti è stata utile questa recensione? Utile per Per te?

Commenta

Avatar utente

Per poter commentare occorre aver fatto login.
Se non sei ancora iscritto Registrati