Regia di David Lynch vedi scheda film
Vita, morte e coscienza onirica di Diane Selwyn. Gli ultimi istanti, centoquarantasei minuti nella scatola blu che racchiude cuore e cervello di una donna qualunque, a cui il mondo ha vomitato addosso i suoi peccati e ha messo una pistola in mano. Scorre placido come un torrente nel boschetto, vivace, grottesco. Il precipizio è dietro l'angolo.
Allo scoccare delle due ore, qualcuno bussa alla porta. Il sogno è finito, è ora di svegliarsi: il torrente in piena inghiotte tutto e tutti in un vortice livido e terrificante, marcia implacabile a ritroso, su per il pendio che guarda la città dal buio dietro le siepi. Lassù, davanti a una tazzina di espresso, dove le montagne crolleranno e da dove le Furie scenderanno ad eseguire la sentenza che spetta ai carnefici delle persone amate, nessuna scusante. Diane ha amato davvero, ma è troppo tardi, ha scelto lei il finale per noi: i suoi sogni, che si dissolvono nel cielo di Los Angeles. E resta solo il silenzio.
Apogeo della settima arte e pietra tombale del vecchio millennio, a cavallo del nuovo.
Soprattutto, lo zenit di quella che fu la tragedia, qui in un torbido menage con il cinema noir.
Difficile inquadrarlo, difficile spiegare quello che può trasmettere a chi ha l'animo, e il coraggio, per viverlo fino in fondo; il Morandini ne riassume la potenza nella definizione più indovinata: "Terribile nei suoi rigurgiti di violenza fredda".
Per chi lo affronta come un film tra tanti, resta un disturbante affresco panoramico su tutta l'arte Lynchiana (al suo meglio), forse un prodotto di derivazione televisiva che non ha giocato fino in fondo le sue carte. Per chi scrive, meglio così. Se Strade Perdute era un diamante fin troppo lavorato, qui Lynch ci consegna il prodotto grezzo, direttamente dal profondo.
Indelebile. Inarrivabile.
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