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L'argent

Regia di Robert Bresson vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su L'argent

di vermeverde
9 stelle

L’Argent, del 1983, è l’ultimo film girato da Robert Bresson in cui il denaro, emblema dell’avidità umana, emerge in tutta la sua malefica potenza distruttrice con la lucida implacabilità logica della dimostrazione di un teorema.

La trama di quest’ultimo film del grande Robert Bresson, derivata dal racconto di Tolstoj, narra di una banconota falsa spacciata da due ragazzi in un negozio il cui proprietario lo rifila ad un onesto operaio (Yvon) che è poi incriminato grazie anche alla falsa testimonianza di un dipendente del negozio corrotto dal proprietario. Questi e l’onesto Yvon, licenziato ingiustamente, constata la facilità di violare la legge impunemente si danno a commettere furti, sebbene con finalità diverse, fino al tragico e violento finale.

Da una relativamente trasgressione iniziale non particolarmente grave, quale lo spaccio di una banconota falsa, si genera una spirale di cattive azioni, ognuna generata dalla  che spingono i protagonisti sempre più in basso fino all’annientamento finale. A differenza della prima parte della carriera, Bresson fa propria una visione sempre più pessimista, culminante in questo film, in cui gli uomini sono spesso grettamente egoisti e deboli di fronte alle avversità della vita e la Grazia che alla fine li riscattava ora è assente, svanita: Yvon, infatti, che aveva già tentato il suicidio, invece di riscattarsi con l’aiuto dell’anziana signora che lo ospitava la sopprime e, resosi conto alla fine della inutilità di continuare a fuggire e reiterare delitti, si arrende alla polizia escludendo così la catarsi.

Robert Bresson, con Carl Theodor Dreyer, è il regista più lontano dal cinema “industriale” e di intrattenimento. La scarnificazione dello stile, perseguita in tutta la sua opera, si attua per mezzo di una scomposizione dell’immagine della quale evidenzia le sole parti essenziali alla resa visiva dell’evento narrato, senza mostrare elementi non in stretta relazione con lo stesso. È un’analisi che definirei come “letteraria”, nel senso che laddove uno scrittore, per esempio, direbbe che il personaggio “apre una porta” omettendo di dire altro, Bresson inquadra una mano che gira una chiave nella toppa, escludendo come fuorvianti al suo discorso tutti gli altri elementi che sarebbero presenti in un’inquadratura più ampia. Altro elemento caratteristico dello stile di Bresson sono le ellissi del racconto, di cui sono mostrati solo gli snodi necessari alla comprensione dello svolgimento della trama tralasciando quelli ridondanti: ne “L’Argent”, ad esempio, non sono mai mostrati gli atti di violenza che invece sono solo intuiti, dedotti dalle immagini successive.

Nei film di Bresson, inoltre, non sono mai presenti attori rinomati, non solo perché il regista richiede una recitazione asciutta quasi sommessa, mai sopra le righe, ma anche perché il pubblico, focalizzandosi sulla presenza di divi potrebbe distrarsi da quanto intende esprimere: “Distanzia, non distrae, non consola, esige l‘attenzione e il rispetto per il contenuto attraverso la massima possibile nudità e precisione della forma” (Goffredo Fofi).

Personalmente ritengo che “L’Argent”, non raggiunge, forse, l’intensità di “Diario di un curato di campagna”, “Pickpocket”, “Un condannato a morte è fuggito”, ma rimane comunque un vero capolavoro che suggella una filmografia di altissimo livello che lo rende uno dei massimi esponenti della settima arte.

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