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Spy Game

Regia di Tony Scott vedi scheda film

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FABIO1971

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La recensione su Spy Game

di FABIO1971
6 stelle

Come è giusto che subisca ogni bravo fratello di Ridley Scott che si rispetti, il buon Tony, in una carriera pluridecennale (l'esordio alla regia, Loving Memory, risale al 1969) di altalenanti successi, ha sempre dovuto spartire l'onore di interviste, recensioni, analisi e commenti con il riferimento, costante ed implacabile, alla sacrosanta superiorità dell'acclamato fratello. Il luogo comune vuole, poi, che, dopo le dogmatiche premesse, la critica si dedichi a scovare all'interno del suo cinema patinato e adrenalinico le stimmate dell'autorialità o illustri confronti con il cinema del passato. E qui il giochino spesso si inceppa, poichè il nostro fatica spesso, se non supportato da un copione coi fiocchi (come nei casi di Miriam si sveglia a mezzanotteL'ultimo boyscout, Una vita al massimo o Nemico Pubblico, i suoi film più riusciti), a svestirsi dei panni dell'onesto mestierante dell'action movie: ne costituisce un'evidente conferma questo Spy Game, thriller spionistico di survoltata presa spettacolare ma dalle modeste ambizioni, specie se paragonate a I tre giorni del Condor, titolo che in ogni recensione del film (nostrana o d'oltremare) è riportato come probabile modello ispiratore tante volte quanto vi appare il cognome Scott (Tony & Ridley, naturalmente...). Inutile precisare che Spy Game, però, ha in comune con I tre giorni del Condor soltanto la CIA ed il protagonista principale Robert Redford (con venticinque anni in più sul groppone), troppo poco per abbozzare paragoni che reggano. Le implicazioni politiche e le teorie complottiste alla base del film di Pollack (per tacere delle sue componenti più crepuscolari, qui completamente assenti), infatti, scompaiono quasi del tutto per lasciar posto ad un giocattolone innocuo e moderatamente coinvolgente (il copione è firmato dagli anonimi Michael Frost Beckner e David Arata), in cui la critica alla politica estera statunitense resta sempre in superficie ed il cinismo dei vertici del potere, ridotto a consuetudine ritrita, finisce per sconfinare spesso nell'apologia della CIA e dei suoi burocrati. La vicenda è quella del veterano Nathan Muir (Robert Redford), agente all'ultimo giorno di lavoro prima della pensione, convocato dai vertici della CIA per fornire spiegazioni sul suo protetto Tom Bishop (Brad Pitt), "colpevole" di essersi lasciato catturare e imprigionare in Cina: Muir, costretto su due piedi ed all'insaputa di tutti ad allestire una disperata missione di salvataggio per liberarlo (con solo 24 ore di tempo a disposizione prima che Bishop, condannato a morte, venga giustiziato), prende tempo, si fa gioco dei suoi superiori, sfrutta le sue conoscenze e le sue amicizie e, sul filo di lana e dando fondo a tutti i suoi risparmi per la vecchiaia (proprio così...), conduce in porto la sua ultima missione. Ambientato agli inizi degli anni Novanta, quando, cioè, la caduta del muro di Berlino ridipinse gli scenari geopolitici spazzando via in un solo colpo gli strascichi della guerra fredda, Spy Game si muove, attraverso una serie di flashback, a ritroso nel tempo per raccontare le varie fasi del rapporto tra Muir e Bishop, dalla guerra del Vietnam (1975), in cui i due si conobbero, al reclutamento di Bishop nella CIA (1979, a Berlino), fino ad una travagliata operazione militare a Beirut (1985): l'azione, però, se si esclude l'avvincente incipit e la fisiologica adrenalina del finale, anzichè trarre giovamento dalla frammentazione in flashback, finisce per risultare appesantita negli sviluppi narrativi, frenando il montare della tensione e vanificando anche gli spunti più coinvolgenti della trama. Resta lo spettacolo patinato da megaspot pubblicitario, restano le funamboliche evoluzioni della macchina da presa, le suggestioni cromatiche ricreate dalla fotografia di Daniel Mindel (già con Tony Scott in Nemico pubblico) nei vari flashback in cui è strutturata la vicenda, il taglio serrato delle inquadrature, il montaggio frenetico delle sequenze d'azione (opera di Christian Wagner, anche lui fidato collaboratore del regista dai tempi di Una vita al massimo), resta, soprattutto, il carisma dei due divi protagonisti Redford e Pitt (anche se i migliori del cast si riveleranno il funzionario CIA interpretato da Stephen Dillane e Marianne Jean-Baptiste nei panni di Gladys, la segretaria di Muir). Ma, allo stesso tempo, il tentativo di Scott di rimpolpare e riaggiornare le atmosfere dei romanzi di Le Carré fallisce nelle banalità, negli anacronismi e nella marea di errori presenti nella sceneggiatura: dai due protagonisti, che durante la guerra del Vietnam e nel 1991 appaiono più o meno identici, senza che un minimo di make-up abbia segnato sui loro volti il trascorrere di quasi vent'anni, ai personaggi che ad inizio anni Ottanta già usano un modernissimo telefono cellulare (per non parlare dei computer e delle altre apparecchiature elettroniche della sede della CIA a Langley, di generazione successiva all'epoca in cui è ambientato il film), dalle sedi delle ambasciate americane a Berlino e a Hong Kong, che non esistevano, alla spaventosa mole di leggerezze ed incongruenze nella descrizione delle procedure di sicurezza interne alla CIA, dove, tra l'altro, tutti i funzionari di primo pelo appaiono come tanti piccoli idioti rispetto al geniale veterano Robert Redford. L'elenco è sterminato e la sospensione dell'incredulità richiesta allo spettatore troppo elevata per passarci sopra: se Scott non fosse riuscito comunque ad amalgare con discreta efficacia ed adeguata resa spettacolare tutti gli spunti forniti dal copione, ci saremmo trovati di fronte ad un clamoroso buco nell'acqua. Se questo non accade, nonostante l'eccessiva durata e i difetti evidenziati, il merito va ascritto senz'altro ai virtuosismi stilistici della regia di Scott, ai duetti tra Robert Redford e Stephen Dillane, alle sequenze ambientate in Libano, la parte migliore del film, in cui la tensione e il dramma, fino allora latenti, esplodono fragorosamente, alla love story tra Brad Pitt e Catherine McCormack (che la sceneggiatura evita, però, di approfondire adeguatamente, altra pecca...), che funge da motore all'intera vicenda. Una spy story irrisolta, che, però, almeno questo bisogna concederglielo, non trasuda testosterone ad ogni inquadratura, mantenendo sempre uno sguardo di sorniona simpatia per il suo protagonista, prossimo alla pensione ma ancora inossidabile.

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