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Un tranquillo posto di campagna

Regia di Elio Petri vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Un tranquillo posto di campagna

di spopola
8 stelle

Uno straordinario risultato visionario raggiunto attraverso lo spericolato uso della cinepresa che al di là di ogni altro merito contribuisce a fare di quest’opera un eccellente e inventivo esercizio tutt’altro che fine a se stesso, non solo di ripresa, ma anche di tecnica narrativa e di montaggio. Notevole anche la fotografia e la colonna sonora

Fino dal suo esordio, Elio Petri ha mostrato una duttilità intuitiva molto accentuata che me lo ha sempre fatto giudicare, fra i grandi registi italiani del secolo scorso, uno fra i più interessati a  percorrere strade poco frequentate (se non addirittura “divergenti”) rispetto a quelle normalmente battute qui in Italia, a “innovare”insomma, facendosi intelligente mediatore di esperienze cinematografiche che per la nostra quotidianità ancora abbastanza provinciale, erano considerate un po’ azzardate - e a volte persino bizzarre e astruse – nel senso che destavano forti perplessità più che nel pubblico che in genere apprezzava, da parte di una critica molto politicizzata e davvero a senso unico, che guardava  con l’occhio storto chi osava “sporcarsi le mani” tentando di cavalcare i “generi”, ai quali – salvo rare eccezioni - veniva dato scarso credito, e spesso denigrava (persino con una buona dose di feroce cattiveria), tutto ciò che provava ad andare in altre direzioni rispetto a quella che era stata l’importante eredità lasciata dal neorealismo, e non intendeva proprio considerare che si poteva fare invece critica sociale anche in altro modo, né voleva tenere conto dell’importanza della forma e dello stile ritenuti elementi secondari rispetto al contenuto.

Una qualità la sua più che apprezzabile dunque, ma anche molto fraintesa a suo tempo, che ha dato origine a ingiustificati ostracismi produttivi e a tantissime contrapposizioni polemiche da buona parte dei soloni della critica ufficiale spesso poco teneri nei suoi confronti (intorno ai suoi film sono davvero stati tanti i “ravvedimenti” postumi di alcuni stroncatori della prima ora, fra i quali quello più clamoroso e rilevante, riguarda proprio uno dei suoi capolavori incompresi e bistrattati oltre misura, e parlo di Todo Modo dal romanzo di Sciascia, virulenta e metafisica “commedia” grottesca permeata di un apocalittico pessimismo che sconfina nel simbolico e nel fantastico, straordinaria  metafora della dissoluzione di una identificabilissima corrente politica, purtroppo diventata a breve tragica realtà, oggetto di un attacco sistematico quasi oltraggioso che lo ha fatto diventare qui in Italia un “introvabile” per quasi quarant’anni e che soltanto da poco è tornato ad essere visibile grazie al meritorio lavoro anche di restauro della Cineteca di Bologna and company).

Anche nel cinema “politico” (lo chiameremo così ricorrendo a qualche necessaria semplificazione) Petri – imperterrito - ha  comunque portato avanti la sua strada indubbiamente molto personale senza lasciarsi minimamente intimidire, e non solo con Todo Modo //www.filmtv.it/film/20806/todo-modo/recensioni/698272/#rfr:film-20806 ) ma anche con tutte le altre tre opere più conosciute e “celebrate” che lo precedono e (adesso) universalmente riconosciute per quella che è stata ed è la loro effettiva importanza stilistica e di contenuto, quelle insomma che più di altre gli hanno dato imperitura fama (comunque – lo ribadisco - accettate da una grossa fetta della critica dell’epoca con più di una riserva e qualche “ideologica” stroncatura) e parlo ovviamente di Indagine di un cittadino al di sopra di ogni sospetto - //www.filmtv.it/film/15917/indagine-su-un-cittadino-al-di-sopra-di-ogni-sospetto/recensioni/498594/#rfr:film-15917 , La classe operaia va in paradiso, //www.filmtv.it/film/1608/la-classe-operaia-va-in-paradiso/recensioni/454487/#rfr:film-1608 , e La proprietà non è più un furto //www.filmtv.it/film/19382/la-proprieta-non-e-piu-un-furto/recensioni/820624/#rfr:film-19382[1], tanto che le più considerate (politicamente parlando), sono anche quelle più normalizzate nella forma (ma solo in apparenza a mio avviso): A ciascuno il suo //www.filmtv.it/film/22/a-ciascuno-il-suo/recensioni/677936/#rfr:film-22  sempre da Sciascia e la straordinaria, personalissima rilettura fatta per la televisione de Le mani sporche di Sartre, il che mi fa dire che Petri ha fatto sempre – anche con le sue opere meno riuscite (forse Buone notizie, l’opera del suo congedo, ma per esserne certo, dovrei rivederlo) – un cinema di alto livello culturale (vedi anche il suo contributo al documentario) disdegnando non solo il conformismo, ma anche gli atteggiamenti intellettualistici in voga negli anni fra i ’60 e i ‘70 ai quali non si è mai piegato, e questo fin da L’assassino, sua opera d’esordio nel lungometraggio a soggetto, nel quale è riuscito a inserire senza stonature, le esperienze del thriller psicologico francoamericano dentro la realtà di una commedia di costume tipicamente italiana (//www.filmtv.it/film/12112/l-assassino/recensioni/352737/#rfr:film-12112).

Il suo interesse a sperimentare si rileva però in maniera ancora più evidente, in opere come il fantascientifico (disturbato non poco dalle interferenze produttive) La decima vittima da Sheckley (//www.filmtv.it/film/13638/la-decima-vittima/recensioni/689755/#rfr:film-13638 ) e  questo Un tranquillo posto di campagna col quale Petri prova a importare in Italia un genere tipicamente anglosassone come la ghost story, anche se a ben vedere, la presenza vera o presunta di un fantasma è soltanto l’elemento – mi verrebbe da dire quasi un efficace “pretesto” narrativo - utilizzato dal regista (insieme ad alcuni moduli di racconto visivo tipici del cinema underground e un andamento creativo simile a quello seguito dai pittori pop) per innestare, fondere (e far convivere) il thriller gotico-erotico  con il ritratto dell’artista alienato nel  mondo mercificato del sistema, dentro a un film scritto e realizzato con una ben precisa chiave ideologica sempre presente nel suo cinema (insieme a un pessimismo abissale) anche quando è sottilmente camuffata da altri intenti e che qui si esplicita in un codice narrativo che in fondo parla soprattutto di sconfitta.

Questo film si potrebbe configurare comunque anche come una strutturata analisi all’interno delle aggrovigliate questioni che riguardano la creazione artistica: il regista aveva molti amici pittori, ne conosceva dunque bene le loro intime esperienze ed è bravissimo a rendere partecipe anche lo spettatore dei segreti e delle ambasce di quella realtà artistica (ovviamente trasfigurate) utilizzando proprio le vicende del protagonista del suo film, il pittore Leonardo Ferri, attraverso la cui figura sembra volerci comunicare che l’artista – di qualunque genere e derivazione - per esprimersi liberamente deve privilegiare la proprio ispirazione, per creare deve negare la sua umanità e il suo esistere storico, e non può lasciarsi “corrompere” da indebite pressioni esterne, il che delinea fra le pieghe anche la crisi di una generazione di artisti (che può essere estesa a tutta la società) sospesa fra gli ultimi echi della tragedia bellica, l’immobilità della provincia e l’implacabile avanzamento alienante delle nuove città in espansione.

 

 

Leonardo Ferri incarna la figura di un vero artista, un pittore che però è legato a un sistema paraindustriale, dove la condizione stessa del vivere diventa paralizzante e altamente limitativa proprio per la genuina espressione artistica che viene dominata dalla ripetitività richiesta dal denaro e dal successo.

La casa-studio dove abita è dunque eccessivamente confortevole: dentro quelle mura così lussuose e asetticamente moderne, tutto (anche l’amante) è ridotto a una macchina fatta per produrre, non certo per “creare”. Sottilmente, Petri oppone a questo standard prefabbricato e ben oliato (e dove ogni cosa  è e deve essere funzionale e redditizio, anche l’artista stesso) un mondo totalmente opposto, silenzioso e appartato: quello della villa veneta - il “tranquillo posto di campagna” del titolo – dove il pittore va momentaneamente ad abitare attratto da ciò che ha sentito dire a proposito dell’antica proprietaria, una ragazza che aveva amato mezzo paese e che poi era morta tragicamente, che diventerà a sua volta la necessaria mediazione fogazzariana intrisa di erotismo e spiritismo, di questa storia di fantasmi all’italiana.

Da perfetto schizofrenico insomma, Ferri che ama e odia  contemporaneamente la donna (amante e madre allo stesso tempo) che gli tiene i conti e indirettamente ne sfrutta il talento, avverte il bisogno di eluderne il controllo, e per sfuggirla, si rifugia appunto in quella villa disabitata in cerca della compagnia (meno ingombrante) di un ipotetico ectoplasma, per provare così a ricomporre il volto del passato, quello dei sentimenti e delle passioni di una volta, e di potersi dedicare interamente (fino a smarrirsi dentro) a un gioco appassionato e gratuito, quello di vivere l’atmosfera decadente e morbosa dell’atavica magione e di quel mondo circostante fatto di paure e diffidenze, di leggende e pettegolezzi, per cercare di resuscitare con l’arte (e lo spiritismo) la ragazza morta e risolvere il mistero di quell’assassinio.

Il succube Ferri insomma è adesso dominato da questa nuova passione esclusiva ed assoluta, diventata per lui quasi un’ossessione, non tanto dissimile da quella provata in precedenza per la società dei consumi che era riuscita a fagocitarlo con una forza attrattiva più economica che artistica.

Sarà talmente concentrato sul problema (ATTENZIONE SPOILER), si darà da fare così tanto, che la ragazza si paleserà davvero con la sua presenza “viva”, inconsciamente chiamata a ingaggiare a sua volta una feroce competizione con la bella amante (e agente). Conflitto che non può avere via d’uscita però, né tantomeno una soluzione positiva, perché come si è visto, si tratta di due assolutismi ugualmente esclusivi, analogamente “coercitivi”e altrettanto castranti, dai quali semmai ad uscire sconfitto sarà solo l’idealismo romantico e il senno dell’uomo. Leonardo perde infatti la ragione e viene chiuso in un bianco manicomio dove ricomincerà a dipingere tanti quadretti astratti che si vendono benissimo (meglio e più di prima). Dalla follia inconsapevole insomma, alla coscienza della follia (che si potrebbe definire meglio nella appartenenza a un sistema dove solo  attraverso l’alienazione si può trovare un’apparente pacificazione ed essere accettati – e in questo sta appunto il pessimismo a cui accennavo prima).

Elio Petri era un marxista, e anche con quest’opera solo in apparenza “più leggera”, conferma la sua specifica appartenenza a quel pensiero, e questo suo tuffarsi “a suo modo” dentro la religione, la  passione totalizzante, nel suo ricorrere all’irrazionale per contrapporsi alla tecnologia, ce lo dimostra ampiamente. Assume infatti una posizione ben precisa (anche critica) che gli permette non solo di fare il punto e di segnalare il pericolo, ma anche di fornire una ipotetica via di fuga, magari utopica, ma perigliosamente percorribile, pur in presenza di un clamoroso fallimento che appare irreversibile. Attraverso di lui viene insomma resa chiara la denuncia della condizione alienata dell’uomo nel mondo corrente (resa manifesta da una precisa scelta di linguaggio) che si esplicita in  una sincopata frantumazione narrativa, nel peso che nel film viene dato alla rappresentazione degli oggetti - quadri compresi -, nell’indovinato e “critico” ricorso ai  delicati climi di un “erotismo vecchio stile”, nella forma contratta e smembrata delle immagini che non si limita ad essere solo il frutto di un abile disegno registico, ma diventa anche la reale, concreta forma  necessaria per emozionare e commuovere lo spettatore e rendergli percepibilmente (e percettivamente) autentici (realistici) gli stati psicologici che definiscono i vari personaggi.

Emerge altresì chiaro anche il suo no di intellettuale (e mi riferisco a Petri) alla tesi della solitudine-rifiuto, a quell’intendere (e glorificare) l’arte come astrazione e dialogo esclusivo con le proprie immagini private: la pazzia - egli sembra dire con questa sua possente opera - è proprio questa, ed è da lei che è necessario difendersi.

 

La storia

Un pittore astratto di successo (Leonardo Ferri), schiacciato dalla morsa delle richieste  commerciali del mercato, è in una grave crisi creativa resa ancora più profonda e insanabile, dal rapporto schizofrenico di amore/odio che ha verso l’avida donna (Flavia) che gli fa da amante, manager e infermiera e che lo opprime con la sua presenza affollando anche i suoi tormentati incubi notturni. Per sfuggirla, si rifugia in una villa veneta disabitata all’interno della quale finirà però per essere disturbato da inspiegabili fenomeni paranormali (rumori, apparizioni improvvise), inizialmente solo presenze sensoriali di ignota natura, ma capaci alla fine (dopo che sarà venuto a conoscenza di un grave fatto di sangue accaduto molti anni prima, e più precisamente ai tempi della seconda guerra mondiale) di trasformarsi nel riflesso fantasmatico e ossessivo di quella truce storia conclusasi con la misteriosa uccisione della allora giovane contessina ninfomane che abitava la villa. La mente già disturbata del pittore farà così assumere proprio alla presenza metafisica della ragazza, una dimensione reale e concreta in grado di materializzarsi per diventare praticamente oppositiva alla “irritante” presenza di Flavia, a cui accadono strani incidenti ogni volta che si presenta nella villae prova a soggiornarci. L’uomo finirà  per diventare pazzo, e verrà per questo rinchiuso in un manicomio, ma non sarà certamente una soluzione salvifica, poiché anche lì continuerà ad essere sfruttato proprio per il suo talento diventato ancor più visionario e genuino, con piena soddisfazione della sua manager/amante e dei collezionisti d’arte.

 

 

Conclusioni

 

Il film (che come si è già detto fornisce una credibile descrizione delle fobie e delle angosce di un uomo sull’orlo di una grave malattia di natura psichica) si potrebbe leggere – volendo -  anche come l'omaggio di Elio Petri nei confronti del mondo della pittura: già dai titoli di testa possiamo notare infatti i numerosissimi riferimenti che l’opera ha con questo segmento dell’arte visiva (e delle correnti artistiche che costeggia: ci si trovano infatti frequenti riferimenti alla body art, all’action painting per arrivare persino dalle parti della land art).

Anche l’aspetto strettamente pittorico delle tele (che si sposa perfettamente con il narrato) risulta particolarmente curato e di eccezionale rilevanza. Sono infatti opera di un famoso pittore pop americano, Jim Dine[2], il che mette in evidenza la particolare attenzione prestata a questo fondamentale elemento della messa in scena. Sono  notevolissime anche le scenografie (di Sergio Canevari) soprattutto quelle postmoderne che nelle sequenze iniziali sembrano persino anticipare quelle utilizzate solo qualche anno dopo da Stanley Kubrick per il suo Arancia meccanica, con le quali hanno davvero molti punti di contatto.

Si può ben dire allora che al di là dell’interessante soggetto di Tonino Guerra e dello stesso Petri  e della loro conseguente sceneggiatura “a orologeria” scritta con la collaborazione di Luciano Vincenzoni  (l’intersecarsi fra loro dei differenti piani narrativi – realtà e immaginazione –, il tratteggiare in sottotraccia la disperata ricerca della bellezza perduta e gli schizofrenici rapporti con la realtà dell’arte e dell’artista), qui ci troviamo di fronte anche a uno straordinario risultato “visionario” dovuto allo spericolato uso che viene fatto della macchina da presa, anticipando inedite tecniche espressive che saranno poi perfezionate ulteriormente nelle sue opere successive (con particolare riferimento proprio a Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto). Visivamente il film non solo è bellissimo (davvero encomiabile il lavoro iconografico della fotografia opera del grande Luigi Kuveiller  a cui deve essere riconosciuto il merito di questo strepitoso risultato), ma anche tutti gli altri elementi sono perfettamente messi a fuoco e magistralmente risolti. L’opera anche sotto il profilo della forma, si conferma infatti come un eccellente e inventivo esercizio (tutt’altro che fine a se stesso) non solo di ripresa, ma anche di tecnica narrativa, di montaggio (del sempre straordinario, impeccabile Ruggero Mastroianni), di effetti speciali,  che assume il senso di una  fondamentale, necessaria tappa in progress capace di  traghettare il regista  verso le pellicole che realizzerà negli anni successivi e  che “senza l’esperienza maturata con quest’opera forse sarebbero state impensabili” (Alfredo Rossi).

Ottima anche la prova degli attori, spericolatamente impegnati ad assecondare il disegno del regista con la necessaria compartecipazione, tipica di chi crede fermamente al progetto al quale è stato chiamato a partecipare. Se Vanessa Redgrave si conferma la migliore in campo (e non c’era da dubitarlo), sono altrettanto professionali e centrati sia Franco Nero che Gabriella Grimaldi (la diciassettenne ninfomane) e Georges Géret. Da segnalare fra i comprimari, la presenza del critico teatrale britannico John Francis Lane (grande estimatore di Carmelo Bene) che negli anni ’60 ha partecipato come attore a molte delle nostre più importanti produzioni cinematografiche di quel decennio.

Last but not least, rimane solo da paralare adesso dell’altrettanto pregevole lavoro di ricerca fatto  sul sonoro, delle  inquietanti, disorientanti, stridule musiche cacofoniche (una specie di improvvisazione musicale in costante mutamento) che compongono lo score musicale (non è assolutamente un caso che sia il frutto del talento di un Ennio Morricone in stato di grazia  qui coadiuvato dal Gruppo di Improvvisazione “Nuova Consonanza”). I suoni che avvertiamo (quasi un’ouverture di semplici rumori) sono inquietanti, quasi fastidiosi, ma sottolineano e supportano egregiamente lo scorrere spesso aritmico delle immagini: rintocchi, riverberi, suoni di ancia, note isolate di pianoforte, rumori amplificati prodotti da materiali diversi uniti a un frequente, indistinto mormorio mentre in sottofondo si ode un fischio, un sibilo, come di un segnale acustico distorto elettronicamente…. Insomma una partitura che è un capolavoro.

 

 

[1] Ancora nel 1978  Sonia Bianchini  (Cinema di tutto il mondo a cura di Alfonso Canziani – Mondadori Editore – pag, 345/46) lo considera un  regista spesso sopravvalutato, “salvando” sostanzialmente (a parte una buona considerazione dell’opera d’esordio nel  lungometraggio), solo I giorni contati (indubbiamente uno dei sui massimi risultati) col quale il regista  “è riuscito a trasportare in un ambiente prettamente  popolare, una problematica di tipo esistenziale incentrata sul problema della morte ricordando a volte Bergman, altre Antonioni, ma mantenendo pur sempre una personale autonomia di stile” e A ciascuno il suo. Sugli altri invece trova sempre qualcosa da ridire: su Indagine di un cittadino al di sopra di ogni sospetto ritiene eccessivamente caricaturale e grottesco il tono della rappresentazione “fino al punto di rendere inverosimili i comportamenti del protagonista”. Peggiore è poi la sorte che tocca - nelle sue parole - a La classe operaia va in paradiso, La proprietà non è più un furto e Todo Modo: per il primo perché  “gli schemi della commedia all’italiana vengono rivestiti di temi superficialmente politici e falsamente innovatori”; per il secondo perché “strizza l’occhio all’erotismo e allo ‘straniamento’ brechtiano” senza però riuscire a centrare i due bersagli; per il terzo,  per il suo essere “un ambiguo e grossolano tentativo di apologo sul tema del potere, che non fa che confermare i limiti tematici ed espressivi del regista”. Bolla infine questo Un tranquillo posto di campagna come “un tentativo suggestivo, ma in parte irrisolto”.

 

 

[2] Jim Dine, classe 1935, è uno dei più noti ed apprezzati artisti americani. Esponente di primo piano della corrente della pop-art inserita nel movimento New-Dada, i suoi quadri hanno fatto parte di una celebre mostra al Nort Simon Museum curata da  Walter Hopps, insieme a quelli di Roy Lichtenstein, Andy Warhol, Robert Dowd, Philip Hefferton, Joe Goode, Edward Ruscha e Wayne Thiebaud.

 

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