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La promessa

Regia di Sean Penn vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su La promessa

di Utente rimosso (Cantagallo)
9 stelle

"La nostra ragione rischiara il mondo non più dello stretto necessario. Nel bagliore incerto che regna ai suoi confini si insedia tutto ciò che è paradossale."

Friedrich Dürrenmatt, La promessa – Un requiem per il romanzo giallo, 1958

 

Friedrich Dürrenmatt non è uno che si fida della verità, almeno non della prima che incontra. Senza troppo riguardo la afferra e la rivolta come un guanto, raccoglie prove sufficienti a smascherarla ma poi, riflettendo con più calma, decide di rimetterla al suo posto. Detronizzare una verità sostituendola platealmente con un'altra è un giochetto da apprendisti, il vero colpo da maestro sta nel metterla seriamente in dubbio lasciandola sul suo piedistallo.

 

Quando nel 2001 uscì la trasposizione cinematografica de “La promessa – Un requiem per il romanzo giallo” pubblicato dallo scrittore svizzero nel 1958, si era appena concluso un decennio – segnato nel 1991 da “Il silenzio degli innocenti” - in cui storie di serial killer avevano imperversato su carta e su pellicola, tanto che da un’ennesima vicenda di omicidi sequenziali era lecito attendersi un prodotto più o meno residuale. Invece, nelle mani di Sean Penn questa traslazione ai giorni nostri dell’opera di Dürrenmatt diede vita a un thriller rarefatto e dolente, avvolto nell’inverno candido del Nevada, rivelandosi una vera sorpresa, esplosa col silenziatore e declinata sul tormento interiore di un uomo che continua a cercare la verità anche quando tutti sono convinti di averla trovata.

 

 

Il peso della dimensione umana e riflessiva della vicenda affiora insieme alla precisione con cui viene presentato l'omologo del commissario Matthai della pagina scritta ovvero il detective Jerry Black: è il suo ultimo giorno di lavoro prima del pensionamento ma l'uomo non sembra aver pienamente realizzato di dover lasciare l'incarico. Fotografie e altri oggetti che abitavano il suo ufficio sono finiti dentro uno scatolone, l’affettuosa festa di addio organizzata dal dipartimento di polizia lo attende insieme alla prospettiva di una vacanza premio, ma l’incoraggiante allegria dei colleghi non può dissimulare l’ambivalenza di un momento di passaggio esistenziale senza ritorno, di fatto assimilabile ad una notifica di decommissionamento.

 

 

A sole 6 ore dal termine di scadenza giunge però, provvidenziale e salvifica come una proroga di vita, la notizia di un efferato omicidio: Jerry Black lascia la sua festa a metà per iniziare, ancora una volta, le indagini. E’ così che un uomo ricomincia a cercare la verità, seppur privatamente, con la passione di sempre, scartando per prima cosa la soluzione più facile. Quando intuisce come sono andate veramente le cose, insiste con gli ex colleghi per tendere una trappola e attendere il vero omicida al varco.

 

 

Il racconto, però, l’ha scritto Friedrich Dürrenmatt, uno che con la verità ha un rapporto tormentato.

 

Lavoro solidissimo dal punto di vista dell’intreccio e della sceneggiatura (scritta da Jerzy e Mary Kromolovski), che all’epoca erano ancora immuni dalla narrazione modello “rompicapo” affermatasi più recentemente, “La promessa” onora una certa nobile classicità espositiva, mantenendosi alla larga da mosse d’effetto e aprendosi la strada nel racconto giallo col passo secco e teso di certi polizieschi anni ’70 (perfetto, a questo proposito, il sapore vintage delle riprese negli open space del dipartimento di polizia). Forte dell’interpretazione misurata di Jack Nicholson (doppiato in italiano da Giancarlo Giannini) e al riparo da dispersioni enigmistiche, la pellicola avanza liberando la sua forza drammatica da inquadrature asimmetriche e scene che contemplano anche l’elemento naturale in funzione straniante e simbolica (ne è esempio notevole l’annuncio dell’omicidio ai genitori della piccola vittima, un campo medio in cui non si sentono i dialoghi ma solo il rumore assordante dell’enorme allevamento di tacchini, a contrasto coi primi piani sullo sguardo fisso e meccanico degli animali destinati al macello).

 

Alla sua terza regia Sean Penn domina perfettamente anche l’urgenza del racconto senza rimanerne assoggettato, soffermandosi su dettagli d’ambiente che approfondiscono lo spessore della storia restituendo una certa dimensione della provincia americana divisa tra semplicità di vita e ricorrenti simbologie religiose, tipiche dei sermoni evangelici. Con il senno di poi, ovvero dopo aver conosciuto anche la sua opera successiva “Into the wild” del 2007, non si può non riconoscere embrionalmente in questa precedente lo stesso gusto per un personalissimo, e già molto efficace, effetto di comunione tra ambiente naturale, uomo e musica, dove nessuno dei tre elementi domina sull’altro bensì tutti coesistono come elementi convergenti e partecipi di un creato suggestivo anche se inquieto e imponderabile (altra doverosa nota di merito va alla colonna sonora di Hans Zimmer & Klaus Badelt, un commento musicale fortemente evocativo che pare connaturato con le immagini stesse).

 


Con lo stesso controllo di registro, immune da cedimenti ma non da sensibilità, la mano di Penn posa in modo interessante anche l’incontro tra Jerry e la giovane madre Lori, una parte piuttosto rielaborata rispetto al romanzo ma che non ne tradisce lo spirito. Si tratta di due persone sole e il loro è un avvicinamento lento e progressivo, che nasce amichevole e si costruisce sulla fiducia, finendo per ricreare spontaneamente un legame affettivo di natura familiare ancora prima che di coppia. Jerry offre alla donna protezione e aiuto sinceri, senza secondi fini: sarà lei, con un gesto pieno di significato, a decidere che quella storia poteva avere una possibilità.

 

 

Come si sarà capito, non so fare mistero della mia personale devozione per questo anomalo “giallo da meditazione”, se così si lo si può definire, che da allora è rimasto per me il termine di riferimento per capire se l’ultimo film uscito è “solo” un thriller, come è in molti casi, oppure se è qualcosa di più.

 

La valenza morale dell’indagine condotta privatamente per onorare una promessa, quella rilasciata da Jerry Black alla madre della vittima, trovò a mio parere un’eco nell’impegno che lega nel tempo i personaggi di un altro thriller dotato di una buona complessità e giunto sugli schermi neanche una decina di anni dopo, l’argentino “Il segreto dei suoi occhi”, ridefinendo in entrambi i casi i termini di un’attesa di giustizia non più delegata al sistema ma ricercata attraverso un patto di fiducia tra singoli individui. Purtroppo però, sopra la buona volontà degli umani, caso e destino giocano le loro carte e l’uomo saggio dovrebbe sapere che il mosaico degli accadimenti si può decodificare razionalmente solo fino ad un certo punto.

 

Difficile dire se risulti infine più doloroso che l’evento chiave della vicenda finisca per confermare la soluzione ufficiale del caso di omicidio, che però non è quella corretta, oppure che quella stessa interferenza - inconoscibile ma decisiva - induca gli ex colleghi a concludere, anche in questo caso del tutto ingiustamente, che era proprio arrivato il momento che Jerry Black andasse in pensione. Così come si era aperto, sulle immagini di un uomo ormai completamente chiuso nel suo mondo e circondato da una natura silenziosamente indifferente, nello stesso modo la pellicola si congeda dagli spettatori senza cortesie, lasciandoli smarriti e senza consolazione, con l’amarezza che si prova quando si è certi di conoscere la verità ma per forza di cose bisogna fingere di accettarne un’altra.

 

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