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L'uomo in più

Regia di Paolo Sorrentino vedi scheda film

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La recensione su L'uomo in più

di MarioC
10 stelle

Il primo Sorrentino non si scorda mai. Un impietoso ritratto di due vite, effimere come effimere paiono le parole, tutte le parole dette o pensate. Vite, e parole, che non possono dimenticarsi. Perché anche di fronte ad un occhio di bue, o a riflettori da stadio, l'uomo resta tale ed è destinato a cadere. E il rialzarsi è questione solo statistica

C’è, tra le tante, una frase de L’uomo in più che si staglia quale manifesto, anche impertinente, della poetica di Sorrentino, più avanti portata alle estreme e più elevate conseguenze, della sua capacità di giocare con le parole, selezionarle con cura appena un po’ sdrucita, elevarle dai bassifondi della polvere agli altari di una quasi metafisica. La pronuncia il segretario tuttofare del club di seconda fascia all’ex giocatore che intende fare l’allenatore e che si sgola (pur con timida afonia) nell’esporre i propri schemi, destinati a portare rivoluzioni e novità. La situazione è apodittica, dice il signor Tagliaferri al baffuto Antonio Pisapia. Siamo negli anni ’80, le circonvoluzioni di un lessico a cura di attimini e quant’altro devono ancora iniziare a stabilizzarsi, eppure in quella affermazione (di per sé, appunto, apodittica e senza alcuna possibilità di una replica che attinga alla razionalità) c’è la grande intuizione di Sorrentino: la forza delle parole, e delle sue combinazioni, di sparigliare le carte, di iniettare nell’ascoltatore fumi interrogativi e attoniti perché, avendo le parole, e le sue infinite possibilità combinatorie, la capacità fascinatoria di trasformare le banalità in sentenze, i motti da Bacio Perugina in poesia del quotidiano, cazzata sublime, remoto moto dell’anima, nostalgia di un Eden irraggiungibile, rivolo di pensiero attivo. Ecco perché L’uomo in più è film, ancora, apodittico: perché non ha paura di prendere una posizione, di approssimarsi ai suoi personaggi devastati dalla sfiga, dall’horror vacui e dalle pulsioni masochistiche e di trattarli con una cura che si apparenta all’amore, con una pietas che è reale avvicinamento ai destini e malinconico omaggio alle occasioni perse ed al tempo che ne ingigantisce il correlato dolore. Ed è, con ogni probabilità, il capolavoro di Sorrentino, poiché film scritto con anima e cuore non protetti dallo star system e rispondente all’esigenza di tirare fuori un campionario, anche immodesto, di vissuto e di pensato; opera tecnicamente acerba, ma gioiosamente ruggente, interpretata da quella nascente divinità del cinema italiano che all’epoca era Toni Servillo (nonché da un Andrea Renzi in sottotraccia e triste dignità di perdente), gioiellino grezzo che rimane e ti rimane, tanto che vorresti vederlo più e più volte, alla ricerca di una parola sfuggita, di un’espressione distratta capace di aprire le porte alla percezione dell’umanità e dei suoi inevitabili guai.

 

 

NOMI. Antonio Pisapia e il suo doppio. Il cantante ed il calciatore, la droga e il menisco saltato, gli altari e le polveri, il successo che fugge via e si rincorre e la speranza di nuove vittorie, un ulteriore doppio esogeno (Fred Bongusto ed il suo sguazzare un po’ noioso nel successo, l’allenatore ed ex compagno che vola in Olanda a visionare giocatori). Per squadernare le sue storie parallele, Sorrentino sceglie la strada, semplice ma non banale, dell’omonimia. Forse c’è un destino nel nome, più probabilmente il nome è quella cosa che può darti eternità ma anche momenti in cui, se pensi all’eternità, vedi il buio. E allora bisogna pensare a quello che si è stati (il monologo sulla libertà del Toni cantante) o a quello che si vorrebbe essere (l’ex calciatore si fa portare all’aeroporto con una pietosa bugia al tassista). La similitudine (Antonio/Toni Pisapia) o la perfetta coincidenza del nome (l’anagrafe non fa sconti e non regala nomignoli da palcoscenico o da stadio) portano a specchiarsi nell’altro, concedono l’empatia a vite vissute nella rincorsa, senza vedute laterali, al successo. Il cantante in disgrazia si imbatte nella vecchia gloria calcistica in un mercatino del pesce (ma già prima lo aveva distrattamente intercettato in una di quelle foto con le quali ristoratori senza fantasia abbelliscono il proprio locale, evidentemente frequentato dalle celebrità) e lo riconosce, si riconosce. Il ritrovare quel viso, quella malinconia, quello struggimento senza ritorno in una trasmissione televisiva, e l’essere subito dopo contattato perché si racconti il passato (ma io non faccio nessuna fantasia di canzoni, tiene a precisare il cantante che non vuole più essere tale) è il definitivo pass-partout per l’identificazione globale. Vita, dolore, morte ed espiazione: i due Antonio non si incrociano mai, nemmeno in quelle personalità così distanti, eppure camminano su binari estremamente prossimi. E non vedono semafori, ecco perché alla fine restano ferraglie e corpi dilaniati, dalla morte ma anche dal dover ricominciare a cucinare pesce per i compagni di cella (come nel ’70, anzi ’69, ’69!)

 

 

FACCE. Ovvero: di come la vita influisce sulle espressioni fino a cambiartele. Il cantante un po’ guascone che interpreta La notte e subito dopo si fa recapitare il pacco dono di una giovane sposa infelice e disponibile; quello stesso cantante che mangia da solo faraoniche pietanze di pesce o non riesce a capacitarsi di come una spina abbia potuto intaccare la perfezione della sua spigola al forno; il cantante (quasi ex) ed il suo sguardo infreddolito e rassegnato durante l’ultimo concerto di paese. Il calciatore che esce dagli spogliatoi e guarda gli invisibili occhi di una follia inebriata; l’ex calciatore che non si capacita di come una donna possa darsi al primo appuntamento e di come possa poi imporre una fuga romantica a Capri (che infatti non ci sarà: l’amore preventivamente sporcato dal sesso resta mera ipotesi infruttuosa). E ancora: lo sguardo interrogativo del cantante all’uomo che ha appena acquistato la sua fu fiammante macchina per pochi spiccioli, accompagnando l’affare con accenti di chiara derisione (Uomo tinto, questa macchina tiene lo stesso mercato che tieni tu); il calciatore che vuole fare l’allenatore al cospetto del presidente che (apoditticamente, ovvio) gli fa una confidenza di rara ed omicida sincerità (Antonio, il calcio è un gioco e tu sei un uomo fondamentalmente triste, a proposito della quale frase occorre una volta di più constatare la rozza perfezione lessicale, la capacità di aprire e chiudere un mondo che hanno quelle poche e stupide parole, se messe insieme in quel modo). E soprattutto: il cantante che vuole acquistare un ristorante, quale prodromo ad una possibile seconda vita, e scopre che il locale è già stato invaso dalla camorra (l’espressione cambia in un amen, fino a impietrirsi in un dolore senza lacrime, notoriamente il peggiore di tutti); l’aspirante allenatore che guarda gli aerei volare, capisce che lui resterà sempre a terra, ed allora decide, in un attimo fugace di occhi senza futuro, di eternare la propria vita esattamente nel cerchio di centrocampo di un anonimo campetto di periferia.

 

 

PAROLE. Vite parallele sì, ma con qualche distinguo. Poiché il destino, proverbialmente cinico e baro, sembra accanirsi soprattutto sulle scorie del successo e sui nomi, ecco che il lessico caleidoscopico di Sorrentino opera una netta cesura. Là dove il cantante è esagerato, informe nella sua espressività, logorroico o sentenziante, il calciatore rimane preda di sostanziale afasia, dazio alla timidezza e pedaggio ad una sorta di dislessia che è soprattutto manifesta incapacità di adattamento (tanto ciò è vero che, ridotta quella flebile voce al silenzio, sarà l’altro a farsene vindice). Ed allora: parole e musica di Paolo Sorrentino, interpretazione (monstre) di Toni Servillo. All’apice del successo, vita presa a morsi e volontà di piegare gli altri ai propri progetti, alle proprie volontà (Questo non perde mai occasione per mettersi di spalle alla vita, al batterista che non può cenare col gruppo a causa della malattia del figlioletto – Embè: che sei un’aspirina tu? Tui sei un batterista e vieni a cena con noi! -), nonché noncuranza di fronte ai piccoli episodi di una vita familiare stretta (Sai che sballo!, alla moglie che gli racconta di come la figlia abbia incontrato la Regina d’Inghilterra) e guasconeria del quotidiano (L’ho sempre detto che voi cinesi ci farete un culo così!, alle massaggiatrici orientali). Dopo la caduta, i tristi tentativi di risalita, mai disgiunti dalla presunzione dell’essere stati qualcuno (Questa cosa della crociera la vedo riduttiva, al manager che sta tentando di farlo rientrare nel giro oppure Prendiamo quattro cantanti, quattro turnisti, ancora al manager che gli prospetta un primo possibile nuovo esordio). O ancora, semplicimente, le tipiche frasi sorrentiniane che sembrano buttate lì a caso e che pure aprono orizzonti velati dal dubbio e dalla nostalgia, parole che non si riescono a dimenticare, forse perché origliate in continuazione, o dette e pensate, in questa vita che non è mai come si vorrebbe (Mi sono svegliato tardi!, Richiamatemi domani; A Londra c’è sempre quella pioggerellina fitta..? Manco una caipirinha a casa mia mi posso fare..). Infine, il tocco di classe, il momento in cui regia ed interpretazione si saldano e concorrono a conferire al film la patente di capolavoro: il già citato monologo sulla libertà. Invitato presso una tv locale, il fu cantante Toni Pisapia (con nuovo look a causa di passeggero problema fisico, circostanza ovviamente virata in burletta: M’hanno consigliat nu shamp e merda!) si abbandona al flusso di memoria, rivendicando i successi, la gloria, le donne (Io non mi sono mai sentito bello, mi sono sentito potente). Ma poiché Antonio non è Proust, ecco che le sue madeleine sono un curioso impasto di superbia e noia, dolore ed estrema consapevolezza di sé (E Frank Sinatra dovette venirlo a sentire, ‘stu fenomeno di Toni), passato e presente (il futuro non c’è, anzi sarà molto simile al passato, in carcere; dunque, estremizzando, sarà un futuro che non avrà futuro innanzi a sé). Sino all’esplosione finale: Io sono un uomo libero. E voi non sapete nemmeno che cazzo significa! La camera si muove poco, Sorrentino rinuncia agli svolazzi che lo renderanno celebre. Di fronte ha un uomo, che parla, dice molte panzane. Ma mette i brividi.

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