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Guardiani della Galassia Vol. 3

Regia di James Gunn vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Guardiani della Galassia Vol. 3

di CineNihilist
8 stelle

James Gunn conclude degnamente l'unica trilogia autoriale all'interno del MCU che, nonostante debba pagare lo scotto di essere inserita nel grande disegno Marvel, restituisce magistralmente l'humanitas definitiva ad un gruppo di reietti che ha fatto la storia non solo della fantascienza, ma anche del Cinema. Noi siamo i Guardiani della Galassia.

Guardiani della Galassia Vol. 3: l'addio di James Gunn al MCU

guardiani della galassia volume 3 copertina

 

 

Rocket Raccoon: “Someday I’m going to make great machines that fly, and me and my friends are going to go flying together into the forever and beautiful sky. Lylla, and Teefs, and Floor, and me. Rocket.”

 

Il Marvel Cinematic Universe si è imposto nell’ultima decade come uno dei più grandi e profittevoli franchise della storia del cinema, rivoluzionando la concezione stessa del cinema d’intrattenimento e del cinefumetto come non si era mai visto nella storia della Settima Arte. Sotto la supervisione attenta e “creativa” del presidente Kevin Feige – già consulente e produttore esecutivo di parecchi film Marvel prima di Iron Man del 2008 – il numero uno del MCU consentì ai Marvel Studios di passare da una condizione di estremo svantaggio nel mercato dei cinefumetti – per via della svendita dei diritti di sfruttamento cinematografici dei più famosi eroi della Marvel alla Sony (Spider-man), alla 20th Century Fox (X-men e i Fantastici Quattro) e alla Universal (Hulk) – ad una rapida scalata delle vette dei botteghini mondiali, fino a quasi monopolizzare e saturare il mercato stesso dei blockbuster. 

 

 

La ricetta vincente fu quello di replicare il modello seriale dei fumetti supereroistici ed applicarlo scientificamente alla produzione cinematografica, dove ogni supereroe avrebbe avuto il suo film solista per poi finire ciclicamente in un crossover iper spettacolare, con all’interno quindi un team supereroistico carismatico e unito contro un nemico estremamente potente. Riunire più personaggi all’interno di uno stesso universo cinematografico fu rivoluzionario per l’epoca, in quanto precedentemente il fenomeno fu circoscritto solo alle trilogie e alle saghe, che però non riuscirono mai ad intessere ed intrecciare un tale numero di macro e micro trame ripiene di personaggi primari e secondari. Il nuovo modello di business di Kevin Feige riuscì così a creare il primo vero universo condiviso della storia del cinema, in cui per la prima volta i vari supereroi della Casa delle idee poterono interagire tra loro nei vari crossover e influenzarsi reciprocamente gli incassi dei film solisti con risultati estremamente positivi. Questa nuova interazione narrativa, simile al modello seriale televisivo, portò alla minuziosa creazione di una macrotrama con un obiettivo finale, ovvero il confronto degli Avengers con il titano pazzo Thanos, definendo così la narrazione seriale della “Infinity Saga” suddivisa in tre fasi dal 2008 al 2019. 

 

 

Il grande pubblico abituandosi ad un carismatico gruppo di supereroi non così tanto conosciuti come gli Avengers, ai numerosi collegamenti ed easter eggs disseminati per tutti i film del MCU e infine all’elevata spettacolarità garantita dai Marvel Studios, portò il cinecomic a diventare il genere predominante nelle sale, fino a raggiungere lo zenit con Avengers Endgame (2019). Il colossal fu il più grande incasso della storia del cinema nel 2019, un successo planetario riuscito grazie al lavoro certosino del “grande disegno Marvel” gestito da Kevin Feige, che riuscì nell’impresa di riunire tutti i (più o meno) famosi supereroi della Marvel in un epico scontro tra le forze del bene e del male, cavalcando inoltre intelligentemente la cultura nerd dell’hype e la crossmedialità della Marvel tra un vasto merchandising e un’ottima strategia di marketing.

 

 

Se i grandi successi commerciali del MCU in tutto il globo sono di sicuro un indiscutibile merito del suo demiurgo Kevin Feige, dall’altra parte i demeriti di un’omologazione sempre più crescente dei cinecomics vanno imputati abbondantemente al MCU. La sovrapproduzione di cinefumetti da parte dei Marvel Studios ha infatti inficiato enormemente la qualità non solo dei suoi stessi lungometraggi prodotti “a fasi” – come in una freddissima catena di montaggio priva di un qualsiasi intento artistico – ma anche dei cinecomics della concorrenza, che goffamente ha cercato di replicare in fretta e furia il modello marvelliano fallendo miseramente (DCEU in primis). La spersonalizzazione del genere supereroistico è infatti dovuta principalmente dalla sostituzione da parte delle major di grandi registi come RaimiNolandel Toro e Singer, che avevano donato un loro sguardo autoriale artistico al genere, con addomesticabili registi operai stipendiati unicamente per eseguire gli ordini di una major nell’allestire il suo (fallimentare) universo condiviso. Tale politica nefasta partita dai Marvel Studios ha contagiato inevitabilmente anche gli altri studios hollywoodiani che, ormai sprofondati in una cronica crisi creativa, hanno cercato di convertire gli altri loro franchise alla logica del cinefumetto crossmediale. Il risultato è l’aver generato più che film per il Cinema, dei lungometraggi inconsistenti che assomigliano più a spot pubblicitari per il brand di turno o fanfiction sorrette unicamente dal fanservice come Spider-man: No Way Home. L’inconsistenza cinematografica di tali operazioni le si possono infatti scorgere dalle origini commerciali del MCU che, volendo riproporre le medesime dinamiche narrative e commerciali del fumetto al Cinema, ha finito nel tempo con lo svilire il senso ultimo della Settima Arte

 

 

È emblematico infatti l’attaccamento morboso negli ultimi anni della Marvel all’universo della serie tv on demand, un mercato sicuramente più florido e popolare grazie alla recente pandemia, che ha portato Kevin Feige ad investire massicciamente nelle serie tv Marvel collegandole con i film al cinema, sperando così di introdurre la “saga del multiverso e le sue regole. Peccato che il pubblico generalista non riesca a stare dietro alla sovrabbondanza bulimica dell’offerta sia cinematografica che streaming del MCU, perdendosi così dei collegamenti importanti che prima erano solo a livello cinematografico, portando così al conseguente flop di Ant Man: Quantumania (2023), che doveva introdurre la Fase 5 e il nuovo villain (o boss) finale della “Multiverse Saga” – quest’ultimo, Kang, introdotto realmente per la prima volta nella serie tv Loki (2021). Al fallimento al box office del film ne consegue, però, oltre che la pessima qualità del film, anche la mancanza di un crossover alla Avengers che possa far interagire il nuovo cast, che relegato ai soli film solisti non brilla nemmeno per carisma, disincentivando così il pubblico generalista a seguire le nuove storie dei nuovi personaggi verso un destino ignoto. Difatti, lo stesso concetto del multiverso risulta confuso, sciatto, abbozzato sia nelle serie tv che nei film, oltre che complesso da gestire al cinema per degli spettatori che non sono abituati a vedere mille versioni dello stesso personaggio come gli abituali lettori dei fumetti. Eppure nonostante la complessità della tematica trattata, il cinecomic d’animazione Spider-man: Into the Spider-verse (2018) è riuscito brillantemente in 117 minuti a spiegare e narrare una storia con al centro il multiverso, senza contare l’encomiabile lavoro svolto dal film indipendente della A24 Everything Everywhere All at Once.

 

La recente crisi del MCU dimostra come un impero commerciale come quello di Kevin Feige non possa campare solo di rendita col proprio marchio sfruttando anonime manovalanze, dato che un sano apporto creativo è spesso necessario per ottenere un grande successo presso il proprio pubblico, come tra l’altro hanno dimostrato i vari registi-autori che si sono cimentati con il genere supereroistico.

 

 

Eppure di fronte ad uno scenario contemporaneo dei cinecomics sempre più superficiale e puramente commerciale fagocitato dalla filiera produttiva castrante del MCU, è emersa incredibilmente al suo interno una figura creativa ritenuta, ormai, fondamentale per risollevare il genere per entrambe le case di produzione Marvel e DC: James Gunn.

 

 

Il giovane regista del Missouri, ormai famoso per aver diretto gli iconici film dei Guardiani della Galassia, mosse in realtà i suoi primi passi nel mondo del cinema in uno scenario estremamente indipendente e antitetico all’atmosfera da film per le famiglie della Marvel. Gunn cominciò infatti a farsi le ossa sui set della Troma, una delle più note case di produzione indipendenti statunitensi specializzate in commedie horror splatter dai toni volgari e demenziali con tanto di nudità bellamente sfoggiate. Il politicamente scorretto della Troma unito alla glorificazione dei freaks e dei reietti portò inevitabilmente ad influenzare la poetica di James Gunn che, grazie alla supervisione del fondatore della Troma Lloyd Kaufman, esordì come sceneggiatore ed aiuto regista in Tromeo and Juliet (1996), una rivisitazione in chiave postmoderna, erotica e splatter della nota tragedia shakespeariana. La pellicola a basso costo della Troma fu uno dei più grandi successi della casa di produzione indipendente, e segnò l’inizio della carriera di James Gunn come attore, sceneggiatore e successivamente come regista sotto la supervisione del suo mentore LLoyd Kaufman, con cui co-scrisse l’autobiografia di quest’ultimo intitolata “All I Need to Know About Filmmaking I Learned from The Toxic Avenger”. 

 

 

Dopo aver imparato tutti i ferri del mestiere necessari per dirigere, scrivere e produrre una pellicola cinematografica, James Gunn nato inizialmente come sceneggiatore cominciò così a scrivere svariate sceneggiature per Hollywood come quelle di The Specials (commedia supereroistica in cui recita pure), dei due live action di Scooby-Doo e infine del remake (sciagurato) di Dawn of the Dead, che gli consentirono di poter dirigere finalmente la sua opera prima Slither (2006). L’esordio alla regia di James Gunn fu un flop ai botteghini per via della sua ambigua natura da opera fantascientifica a metà tra l’horror e la commedia che non piacque al pubblico, ma che col tempo acquistò il suo status di cult per via del suo omaggio all’horror comedy degli anni ‘80, a Society di Brian Yuzna, a Shivers di David Cronenberg e infine a L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel. L’omaggio di Gunn all’horror e alla fantascienza del passato in Slither servirono però al regista anche nell’esplicitare i semi della sua poetica all’insegna della commedia e dell’unione di reietti dissociati dalla società contro un nemico – in questo caso un alieno viscido e tentacoloso che rimanda l’amore di Gunn verso i kaiju e il cinema giapponese – omologatore e assetato di potere. Questi tratti distintivi della poetica di Gunn, già in parte sviluppati nella sua esperienza alla Troma, ritorneranno pedissequamente nei futuri film del cineasta ad alto budget, insieme ad un uso esplicito della violenza e del sangue, spesso con un intento parodico anarcoide. L’estetica del film e i suoi effetti speciali, invece, richiamano quelli dei b-movie sia degli anni ottanta-novanta, sia della Troma, in cui l’attenta ibridazione tra effetti digitali e trucco prostetico non abbandonerà mai il regista, nemmeno quando sbarcherà nelle produzioni miliardarie e iper digitalizzate di Marvel e DC.

 

 

Dopo il cocente flop ai botteghini di Slither e dopo svariati corti e web serie come James Gunn’s PG Porn all’insegna della parodia e del politicamente scorretto in pieno stile Troma, il regista dopo 4 anni ritornò alla regia e alla scrittura per il suo secondo lungometraggio chiamato Super (2010), una commedia nera con l’intento di parodiare le gesta di un uomo che si improvvisa un supereroe nel mondo reale. A fronte di un budget di soli 2.5 milioni di dollari (un decimo del budget di Slither) e alla presenza di attori famosi all’epoca come Rainn WilsonElliot PageLiv Tyler e Kevin Bacon, il film non venne apprezzato dal pubblico ed incassò poco più di 500.000 dollari. Il cocente flop al botteghino fu principalmente dovuto, oltre che dalla sua natura anti spettacolare e cinica nel raccontare una storia supereroistica, all’ovvio confronto con il cinefumetto Kick-ass dello stesso anno. Il film di Matthew Vaughn fu anch’esso una parodia violenta e cinica del mondo supereroistico, che però poté contare su un alto budget grazie alla grossa produzione e su una fonte fumettistica pop esteticamente molto accattivante.

 

Nonostante l’insuccesso commerciale, Super è una continuazione e un’espansione della poetica di Gunn stavolta calata in un contesto supereroistico, in cui il regista mette in scena il delirio di un uomo cristiano che, dovendo salvare la moglie tossicodipendente rapita da un manipolo di criminali, decide di seguire la sua fede in Dio per diventare un supereroe e combattere il crimine. Se in Kick-ass l’aura ridicola dell’improvvisato supereroe in calzamaglia finisce col diventare veramente epica – in termini supereroistici – grazie alla conoscenza di veri giustizieri privati atletici e letali, il protagonista reietto di Gunn invece rimane vulnerabile patetico dall’inizio alla fine nella sua breve avventura supereroistica. Super può considerarsi infatti un sorta di neo-noir sulla vita triste e disagiata di un fallito che, per poter mantenere vivi i suoi principi religiosi e morali, si trasforma in un supereroe di strada che vedrà realmente i pericoli nell’essere “super” in un contesto di provincia americana soffocata dalla droga e dalla criminalità. Il romanzo di formazione all’insegna della commedia nera che permea per tutto il film, lo rende di fatto il film più cupo – e forse un po’ reazionario sul finale – dell’intera filmografia di Gunn. Il lungometraggio è inoltre il manifesto programmatico dell’eroismo gunniano, che non scaturisce assolutamente dalla forza bruta e dall’aura mitica dei supereroi, ma dal cuore puro di quest’ultimi nel voler cambiare in meglio la propria esistenza, soprattutto con l’aiuto degli altri. Rigettando così violentemente, come l’uccisione dei villain omologatori e amorali nei film di Gunn da parte dei suoi (anti)eroi, tutti coloro che amano ferire e controllare il mondo, la società e il prossimo.

 

 

Il manifesto autoriale e supereroistico del regista in Super venne stranamente e incredibilmente notato da Kevin Feige che, alla ricerca di un regista operaio in grado di mettere in scena la linea narrativa cosmica del Marvel Cinematic Universe, trovò in James Gunn il perfetto candidato per mettere in scena i Guardiani della Galassia. La sceneggiatura nonostante sia stata commissionata alla sceneggiatrice Nicole Perlman, fu quasi completamente riscritta da Gunn, che iniettò nella storia dei Guardiani della Galassia tutta la sua poetica d’autore e il suo amore per i comics supereroistici della Marvel. Sicuramente la violenza e il politicamente scorretto, che contraddistinsero i lavori precedenti di Gunn, dovettero essere pesantemente limitati per via del pubblico della Marvel composto principalmente da famiglie. Nonostante ciò, il regista riuscì comunque abilmente ad adattarsi alla filiera produttiva del MCU e ad inserire tutta la sua vena anarcoide in sottotraccia per tutta la sua trilogia spaziale. La predisposizione del regista alla scrittura, alla commedia, alla fantascienza e alla spettacolarità del cinefumetto gli consentì di potersi muovere liberamente nell’universo condiviso Marvel, potendo così costruire un suo universo autonomo nello spazio esclusivamente legato alla sua poetica d’autore, sganciata dal supereroismo Marvel prefabbricato da Fiege. Il particolare status acquisito da Gunn all’interno del MCU permise ai suoi Guardiani della Galassia di poter brillare di luce propria, di conquistare il cuore di un pubblico più maturo e restio ai cinecomics e, infine, di essere unanimemente riconosciuti come i migliori personaggi solisti all’interno delle varie fasi prefabbricate del Marvel Cinematic Universe.

 

Guardiani della Galassia volume 1 poster

 

Il primo capitolo dei Guardiani della Galassia ne è un esempio lampante, in cui il regista uscito dalla Troma riuscì a condensare tutta la fantascienza a cavallo dei due secoli nella creazione di una space opera dal sapore estremamente fresco e inusuale, se non addirittura rivoluzionario. L’incipit del film rappresenta pienamente lo stile di Gunn, che dopo aver presentato la morte drammatica della madre di Peter Quill, si cimenta nel costruire una scena dai toni epici e misteriosi con il protagonista Star-Lord mascherato e appena atterrato su un pianeta vulcanico, per poi smitizzare immediatamente l’epica del personaggio presentandolo per quello che è, ossia un demenziale ladro intergalattico che comincia a ballare ascoltando sul suo walkman una canzone pop-rock anni ‘70. I canoni estetici e audiovisivi della nuova concezione di space opera partorita dalla mente di James Gunn si ritrovano già in questa scena iniziale, in cui si presenta il tono che avrà tutto il film, ovvero una scanzonata space opera all’insegna della commedia e della musica, ma anche del dramma, quest’ultimo il veicolo finale che porterà i Guardiani della Galassia ad unirsi in unico gruppo. La grande novità stette quindi nella delineazione di un nuovo stile per il sottogenere della space opera, quest’ultimo trasposto per la prima volta al Cinema nel 1977 da George Lucas ed ora ultimato dalla regia di James Gunn. Il regista proveniente dal Missouri riuscì, infatti, a trasporre perfettamente la cosmologia Marvel mischiandola con la fantasia visiva di Star Wars, cercando però di non replicare completamente lo stile che ha fatto la fortuna del franchise di Lucas. La grande differenza fu quello di utilizzare più che una colonna sonora esclusivamente orchestrale e solenne, una selezione di brani pop-rock anni ‘60 e ‘70 – ribattezzata metacinematograficamente “Awesome Mix Vol. 1” nel film – in linea con l’unicità sregolata e postmoderna dei ladri, guerrieri, assassini e cacciatori di taglie intergalattici gunniani. Lo splendido lavoro di alternanza di musica diegetica ed extradiegetica all’interno del primo film dei Guardiani della Galassia fu sicuramente uno dei marchi più distintivi del futuro franchise. Questo stile voluto espressamente da Gunn richiese al compositore Tyler Bates di scrivere alcuni brani della colonna sonora prima delle riprese, in modo che tutta la troupe si muovesse in sintonia con i brani e le canzoni della colonna sonora, come faceva Sergio Leone con le colonne sonore di Ennio Morricone. Applicando questo metodo di lavorazione, Gunn riuscì così a garantire una fluidità organica dei movimenti di macchina e del corpo attoriale all’interno delle canzoni anni ‘60 e ‘70 scelte da lui prima di girare, sancendo così il successo planetario dei suoi anti eroi intergalattici preferiti. L’uso peculiare della musica è dunque strettamente collegato alla drammaturgia della pellicola, soprattutto all’elaborazione del lutto di Star-Lord, che ascoltando la musica dal suo walkman regalatogli dalla sua defunta madre, mantiene vivo il suo unico legame col suo pianeta natale: la Terra.

 

Guardiani della Galassia Peter Quill

 

James Gunn demitizzando il suo protagonista e svuotando di ogni epicità tutti i suoi comprimari, riuscì a delineare e denudare perfettamente tutte le psicologie dei vari Guardiani della Galassia, facendo così sensibilmente risplendere l’umanità di un gruppo di reietti in ricerca di un loro posto nella galassia in quanto fuorilegge, emarginati e scarti della natura. Il regista riprendendo la poetica avviata sin dai tempi della Troma, passando per Slither Super, riaffermò il suo amore per i freaks e per il diverso, scontrandosi con lo strapotere distruttivo di Ronan l’accusatore, il classico villain gunniano privo di empatia e alla ricerca dell’assoluto potere. L’iconica scena dei Guardiani della Galassia in cui si tengono per mano per contenere il potere della gemma dell’infinito e la battuta seguente di Star-Lord “You said it yourself, bitch. We’re the Guardians of the Galaxy“ è ormai entrata nell’immaginario collettivo, senza contare altre scene iconiche come il sacrificio di Groot con la battuta “We are Groot” e lo stravagante ballo di Star-Lord per distrarre Ronan sul finale. Il primo capitolo dei Guardiani della Galassia diventò ben presto un instant cult, non tanto perché fu un film Marvel importante per la sua macro trama galattica, ma perché fu una scommessa vincente in cui si riscrisse la space opera, collocando così la pellicola di diritto nella storia del cinema come uno dei migliori film di fantascienza mai fatti.

 

Guardiani della Galassia volume 1

 

Il primo successo finanziario (inaspettato) all’interno della sua filmografia portò James Gunn ad essere riassunto dalla Marvel per la direzione del secondo capitolo, stavolta scritto esclusivamente da lui e che di fatto rappresenta il massimo vertice artistico del MCU, nonché uno dei migliori cinecomic di sempre. Se il primo capitolo soffriva sia dell’inserimento forzato di Thanos voluto da Fiege per introdurre ufficialmente il villain finale della “Infinity Saga”, sia della presenza di un villain abbastanza bidimensionale come Ronan l’accusatore, James Gunn nel secondo capitolo ottenne fortunatamente piena libertà creativa nello sviluppare approfonditamente ogni suo personaggio, senza doversi così agganciare alla macro trama del MCU, creando inoltre uno dei migliori villain all’interno del genere cinecomic: Ego. I film dei Guardiani, seppur corali, hanno sempre avuto un focus maggiore sul passato di Peter Quill, tant’è che il primo film affronta la delicata tematica dell’elaborazione del lutto materno, che Star-Lord finalmente supera ritrovando una nuova famiglia in GamoraRocketDrax e Groot. Dopo aver affrontato il tema dell’amicizia e della maternità nel Volume 1, nel Volume 2 Gunn esplora il concetto di famiglia paternità, optando per una narrazione più intimista ed esistenziale rispetto al primo capitolo, dividendo così i Guardiani in due pianeti e arenandosi in essi. Tale scelta di rendere più “stazionari” i suoi protagonisti in opposizione al road movie del capostipite, è funzionale al confronto dialettico sia interno al gruppo di amici alieni, sia tra Peter Quill e suo padre Ego (un celestiale con poteri semidivini), quest’ultimo la causa della morte della madre di Quill e che ha come obiettivo di usare il figlio per espandersi “celestialmente” in tutti i pianeti dell’universo. Lo scontro tra Star-Lord ed Ego apre dunque ad interessanti riflessioni filosofiche ed esistenziali sul deismo, sul nichilismo, sull’umanità, sulla mortalità, sull’immortalità e sulla paternità naturale ed acquisita, quest’ultime esplorate con estrema delicatezza e profondità quando Yondu (il padre acquisito) si sacrifica per salvare Peter Quill, che ha accettato definitivamente il suo essere un terrestre mortale (diversità vs omologazione).

Anche gli altri Guardiani acquisiscono maggiore introspezione profondità: la conflittuale sorellanza tra Gamora e Nebula raggiunge finalmente un nuovo equilibrio affettivo; l’inaspettato legame empatico tra Drax e Mantis rivela la loro comune natura di essere persone sì disadattate, ma anche due anime pure e spontanee; ed infine l’inaspettata chimica tra Rocket e Yondu quando si scoprono essere molto simili, essendo due personalità ruvide, caustiche e sarcastiche in quanto incapaci di esprimere una naturale affettività verso il prossimo per via dei loro traumi irrisolti. Il Volume 2 di James Gunn, dunque, completa ed evolve definitivamente le personalità dei suoi anti eroi alieni, che dopo essersi uniti come amici inaspettatamente per sconfiggere una minaccia intergalattica, ora devono imparare a convivere come in una famiglia che naturalmente porta a litigi, ma anche a riconciliazioni. 

 

Guardiani della Galassia volume 2

 

In conformità all’evoluzione drammaturgica, anche la regia matura rispetto al primo capitolo, in cui Gunn, ormai padrone degli effetti speciali, regala all’inizio del film uno splendido piano sequenza in cui Baby Groot – il miglior product placement della storia del cinema – balla mentre sullo sfondo in fuori fuoco i Guardiani della Galassia combattono contro una creatura gigante aliena. Scegliere le migliori sequenze d’azione del film risulta quindi assai difficile per quanto sono dirette magistralmente, ma la più iconica è sicuramente l’uccisione di massa da parte di Yondu, con la sua freccia rossa telecinetica, di tutto il suo equipaggio Ravagers ammutinato, con la complicità di Rocket e Baby Groot che contribuiscono al massacro. Selezionare le migliori inquadrature di Guardiani della Galassia Volume 2 è un altro compito assai arduo da compiere, ma la sola messa in scena dell’opulenta ed eugenetica società aliena dei Sovereign, in opposizione alla biodiversità volutamente stravagante dei Guardiani, è un altro colpo di genio che suggerirà su quali tematiche la pellicola andrà ad affrontare egregiamente. Senza contare la sempre più sopraffina scrittura del regista proveniente dalla Troma, che riesce a mettere in bocca ai suoi personaggi volgarità mai viste in un film Marvel, disquisendo di sessualità e stronzi con una raffinatezza e comicità invidiabili, anche grazie alla sapiente direzione del corpo attoriale che brilla in tutto il suo carisma. In particolare un inaspettato Dave Bautista, un famoso ex wrestler ormai convertito in un perfetto attore comico hollywoodiano e non solo. Le cinque scene post credits alla fine del film che non si collegano a nessun film del MCU, riconfermano la totale indipendenza del secondo capitolo dal MCU e il grande amore del regista per i suoi personaggi, evitando così di diventare una marionetta dei Marvel Studios e regalando uno dei finali più struggenti e agrodolci di tutto il filone cine-fumettistico. James Gunn con il Volume 2 – come il volume della sua musica stavolta più anni ‘80 dell’Awesome Mix Vol. 2 – raggiunge il suo apice registico ed autoriale, riconfermando inoltre l’ormai assodata regola che è sempre il capitolo centrale di una trilogia autoriale cinecomic a svettare sugli altri capitoli.

 

Guardiani della Galassia Yondu e Rocket

Guardiani della Galassia volume 2

 

Dato il grande successo del film con più di 800 milioni di dollari di incassi, James Gunn venne nominato da Kevin Feige come curatore dell’aspetto cosmico del MCU, raggiungendo in questo modo l’apice della sua carriera in quel momento, fino a venire accreditato come produttore esecutivo di Avengers Infinity War e Endgame, dando inoltre segretamente una mano ai dialoghi dei Guardiani nei due più profittevoli crossover dei Marvel Studios. Un regista partito da un contesto di puro politicamente scorretto e ultra indipendente low budget come quello della Troma, finì col diventare paradossalmente una delle figure chiave di uno dei più grandi franchise politically correct di sempre. Ma come spesso succede nella storia del cinema, ad Hollywood si può arrivare facilmente dalle stalle alle stelle e dalle stelle alle stalle. Data la notorietà del regista nell’essere un convinto anti trumpiano, l’attivista di estrema destra Mike Cernovich rispolverò nel 2018 vecchi tweet di Gunn dal 2008 al 2012, nella quale l’ex sceneggiatore della Troma scherzava con tanto di black humor sulla pedofilia e sull’olocausto, alzando di conseguenza un polverone mediatico tale che portò all’immediato licenziamento di Gunn dai Marvel Studios, senza poter dirigere così il terzo capitolo dei Guardiani della Galassia. La reazione impulsiva ed esagerata della Disney, che prese in contropiede un contrariato Kevin Feige per la decisione presa, portò allo sdegno degli storici collaboratori di James Gunn e di tutto il cast dei Guardiani della Galassia, soprattutto dopo che il regista aveva pubblicato una lettera in cui si scusava pubblicamente per il suo “passato difficile”. Dopo un anno, però, incredibilmente la Disney si ricrede, così dopo il divorzio inaspettato con la Marvel il regista venne riassunto per concludere la sua trilogia spaziale. 

 

Nel frattempo però, dopo aver prodotto l’horror supereroistico Brightburn (2019) incentrato su un giovane e fittizio Superman malvagio, Gunn fu chiamato dalla concorrenza, ossia la DC, per girare un sequel-reboot di Suicide Squad (2016) di David Ayer, in modo da rilanciare il franchise e svecchiare un ormai moribondo DCEU dopo l’orrida gestione di Zack SnyderJames Gunn potendo contare su una maggiore libertà creativa da parte della DC, che non ha tutti i paletti debilitanti del MCU come mille sottotrame da collegare e un target famigliare da rispettare, poté così sfogarsi con violenza, sangue e scurrilità senza particolari limiti dopo il periodo “censorio” con i Marvel Studios. Il regista con The Suicide Squad (2021) ritornò quindi alle sue vere origini politicamente scorrette e antisistema della Troma che, sul solco del team di outsiders creati per i Marvel Studios, riportò su schermo personaggi DC sconosciuti al grande pubblico, rendendoli anch’essi iconici e sfaccettati – come era successo coi Guardiani – con poche ma efficaci linee di dialogo. 

Nonostante il flop al botteghino dovuto principalmente ai bruttissimi film DC che avevano preceduto The Suicide Squad e alla pandemia di COVID-19, il film di Gunn risulta l’ennesimo trionfo artistico del regista che, seppur ricalchi un’impostazione drammaturgica simile ai film dei Guardiani della Galassia, aggiorna la sua poetica antisistema criticando fortemente la geopolitica imperialista degli USA, che diventa il vero nemico del suo penultimo lungometraggio. Data la natura esplicitamente politica della Suicide Squad fumettistica, il regista del Missouri adotta uno stile satirico nel raccontare i crudeli apparati militari statunitensi e le gesta dei supercriminali usati come soldati per destabilizzare i paesi geopoliticamente più deboli. La voce autoriale dell’ex dipendente della Troma riesce dunque a trovare terreno fertile negli avversari della Marvel, potendo così sperimentare una regia più violenta nella messa in scena e una fotografia più sporca nel definire l’umanità di un altro gruppo di reietti, stavolta costretti ad andare al macero per fare gli sporchi interessi del governo americano. Nella comune missione suicida sulla falsariga di Quella Sporca Dozzina (1967), la nuova Suicide Squad ricattata dal governo americano riuscirà comunque a sconfiggere la minaccia omologatrice ed extraterrestre Starro. Nel farlo però, riuscirà ad unirsi fraternamente con sincerità e puro eroismo nel salvataggio della popolazione dello “stato canaglia” bersagliato da Amanda Waller, ricattando successivamente quest’ultima dopo aver smascherato gli sporchi segreti del militarismo imperialista USAJames Gunn maturando incredibilmente la sua poetica dato che gli furono imposti pochissimi paletti produttivi, riuscì a conferire finalmente la giusta forza alla controparte fumettistica della Suicide Squad, dando inoltre alla sua troumette Harley Quinn l’iconicità che merita, e cancellando così definitivamente dalla memoria del pubblico l’orrida trasposizione di David Ayer (come il mediocre Will Smith sostituito finalmente dall’ottimo Idris Elba).

 

 

Malgrado il flop al botteghino, il nuovo CEO della Warner David Zaslav notando l’enorme talento di James Gunn, incarica a novembre del 2022 il regista e Peter Safran – già produttore dei film DC dal 2018 e storico amico di Gunn – di diventare i nuovi CEO dei DC Studios. L’obiettivo per cui li incarica è di resettare tutto il DCEU morente e crearci sopra un nuovo universo DC con nuovi film, trame, personaggi ed attori, lasciando soltanto in vita alcuni progetti di qualità come la trilogia in divenire di The Batman di Matt Reeves e il sequel di Joker diretto da Todd Phillips. Incaricato di amministrare e ristrutturare creativamente tutto il franchise della DC alla stregua di un Kevin Feige 2.0, ironicamente James Gunn da regista “scomodo” dei Marvel Studios diventa improvvisamente il loro concorrente numero uno, conquistando così definitivamente una posizione di assoluto privilegio all’interno di una disperata DC con una marea di flop commerciali e artistici alle spalle.

 

Prima di potersi concentrare sul suo nuovo ruolo ai DC Studios però, James Gunn deve congedarsi a coloro che l’hanno reso celebre e famoso presso il grande pubblico, ossia i Marvel Studios, e chiudere così degnamente l’ultima trilogia autoriale all’interno del panorama dei cinecomics. In onore della più grande ispirazione dei Guardiani della Galassia ovvero Star WarsJames Gunn ottiene l’approvazione da parte dei Marvel Studios di realizzare un Holiday Special per Disney+ (come fece Star Wars nel 1978) sui Guardiani della Galassia prima del capitolo finale, in modo da preparare il terreno per l’addio finale al secondo (?) team di supereroi preferito del MCU. Il regista aveva già espresso il suo amore per i propri personaggi e per il suo cast nella realizzazione del parodico videoclip musicale Guardians’ Inferno cantato da David Hasselhoff (uno dei tanti miti dell’infanzia anni ‘80 di Peter Quill) e, sulla scia della genuina demenzialità di quest’ultimo, realizza uno speciale televisivo natalizio dedicato ai Guardiani, per regalare inoltre un’ultima scanzonata avventura a Mantis e Drax nel recupero/rapimento dell’attore Kevin Bacon come regalo di natale per Peter Quill. Oltre ad omaggiare tutti i personaggi e gli attori che l’hanno accompagnato per più di 10 anni nel MCU, Gunn inserisce nell’Holiday special la rivelazione della fratellanza tra Mantis e Peter Quill che, seppur non sia una retcon dato che nel Volume 2 si vedeva che Ego aveva copulato con la razza aliena di Mantis, sarà l’inizio di vari difetti ricorrenti del terzo capitolo, che inevitabilmente soffre di essere stato inserito nella continuity seriale e crossmediale del MCU post Infinity War e Endgame.

 

Guardiani della Galassia Holiday Special

 

Tolti i difetti imputabili unicamente alla continuity del MCU e non al creatore dei Guardiani della Galassia, Gunn col Volume 3 può finalmente concentrarsi sul caustico, burlone ed ingegnoso procione con impianti cibernetici Rocket Racoon, trasponendo le sue sofferte origini che già erano chiare al regista nel momento in cui accettò di dirigere il primo Guardiani della Galassia. In una recente intervistaGunn ha affermato come Rocket sia sempre stato il motivo per cui ha accettato la sfida di trasporre al cinema i Guardiani, in quanto il suo dubbio era se si potesse veramente rendere credibile un procione antropomorfo parlante affianco agli Avengers, e che dunque non sembrasse un personaggio troppo infantile alla Bugs Bunny in un contesto ad esso alieno. Plasmare Rocket a sua immagine e somiglianza, fu così fondamentale per rendere credibile la presenza in CGI di un procione antropomorfo parlante in mezzo a degli alieni umanoidi, ossia un essere triste e disumanizzato dagli esperimenti di uno scienziato pazzo e che, di conseguenza, per farsi rispettare dal prossimo, si creava una corazza da duro e da stronzo con fare sarcastico per paura di aprirsi al prossimo e denudare così il suo animo. Il personaggio più gunniano di tutto il team dei Guardiani segue così l’evoluzione del suo demiurgo, che una volta ritrovato il suo posto nel mondo – la Marvel e la DC – ha deciso di aprirsi al prossimo e umanizzarsi nel processo, senza respingere a priori gli altri a suon di cattiverie per mantenere integra la propria corazza e maschera. L’ultima inquadratura del Volume 2 mostra infatti Rocket versare una lacrima al funerale di Yondu, consapevole che finalmente ha trovato un posto nella galassia in cui sentirsi finalmente sé stesso ed amato da chi ha attorno, combattendo fino all’ultimo sangue per la sua famiglia se necessario com’è successo in Infinity War e Endgame. Non a caso il Volume 3 si apre con un flashback di Rocket neonato e un primissimo piano del procione intento ad ascoltare “Creep” dei Radiohead, una canzone malinconica sull’essere “strani” agli occhi altrui e inadatti anche nel proprio corpo come si sente Rocket, che nel corso dei precedenti capitoli non ha mai accettato di essere chiamato “procione”. Il cuore teorico e oscuro dell'ultimo film di Gunn parte quindi come sempre dal flashback “prologo” e dalla prima scena, in cui con un malinconico piano sequenza il regista, con in sottofondo la canzone dei Radiohead, sottolinea la fine di un’era e un ultimo commiato a tutti i suoi personaggi, con un focus principale stavolta su Rocket e sul suo oscuro passato. Il film, come la canzone, esplora la tematica dell’accettare sé stessi e difendere la propria diversità da persone e da una società che vogliono omologare tutto e tutti. I Guardiani della Galassia si sono fatti sempre portavoce di questo messaggio progressista attraverso il loro essere una xenofamiglia, che non richiede infatti un’appartenenza di sangue per parteciparvi come richiedeva il freddo e spietato Ego a Peter Quill. Il cuore del racconto diventa perciò Rocket, che ferito mortalmente da Adam Warlock inviato dall’Alto Evoluzionario – lo scienziato pazzo che l’ha creato – ora deve affidarsi ai suoi sodali amici se vuole sopravvivere, dato che quest’ultimi hanno bisogno di una password reperibile solo dal crudele demiurgo di Rocket per curarlo.

 

 

L’incredibile humanitas dei Guardiani della Galassia viene inoltre splendidamente osservata anche dall’esterno, ovvero da una Gamora proveniente da una linea temporale alternativa dopo i fatti di Endgame, che Gunn riesce a giostrare molto intelligentemente nel valorizzare ancor di più la specialità dei Guardiani. La figlia di Thanos, non avendo vissuto con quest’ultimi, non comprende la gravità della situazione di Rocket e si dimostra fredda e anaffettiva inizialmente con tutti loro, per poi comprendere solo sul finale, dopo aver viaggiato con i Guardiani, il loro autentico valore come esseri umani. La sua sorellastra Nebula infatti, dopo essere stata nemica e rancorosa per tanto tempo nei confronti dei Guardiani della Galassia, dopo gli eventi di Infinity War e Endgame ha finito col diventare un membro attivo e fondamentale del gruppo, come il ruolo ricoperto dalla vecchia Gamora prima di perire per mano di Thanos in Infinity War
Il fulcro drammaturgico dell’ultimo capitolo della trilogia è dunque la strenua difesa della nostra autenticità anche quando quest’ultima è imperfetta, come lo sono i Guardiani della Galassia, ovvero dei reietti che nel salvare casualmente la galassia si sono uniti, ritrovati, confortati, fino a costituire una stramba famiglia. L’antitesi finale nel confutare la natura “innaturale” stessa dei Guardiani, è infatti il villain “mad doctor” l’Alto Evoluzionario, un potente scienziato pazzo che, praticando l’eugenetica, si occupa di creare forme di vita perfette per popolare l’universo, affogando nel perfezionismo più malato e perverso, e senza farsi scrupoli nell’utilizzare forme di vita senzienti per i suoi folli esperimenti. Una di queste è proprio Rocket, un procione strappato dai suoi simili per essere trasformato in un’arma biologica intelligentissima e dalle caratteristiche antropomorfe, mutato geneticamente per popolare un pianeta di animali antropomorfi. Ma, una volta ritenuto utile solo per il suo cervello dal suo demiurgo frankensteiniano – per aver risolto intuitivamente un problema ingegneristico nella creazione di una specie animale antropomorfa pacifica, Rocket, grazie alla sua inventiva, riesce a fuggire dal suo aguzzino e ne diventa la sua ossessione, fino a diventare quest’ultima la causa della stessa morte dell’Alto Evoluzionario. Gunn strutturando un montaggio frammentato dei flashback sul giovane Rocket con al centro anche i suoi compagni di cella, riesce catarticamente a rappresentare la triste e disumana genesi del personaggio, fino ad arrivare alla straziante perdita degli amici di Rocket soggetti ad esperimenti come lui, portando inevitabilmente lo spettatore a provare una sincera compassione ed empatia nei confronti di animali vessati fatti in CGI. La forte componente animalista della pellicola riafferma il profondo amore che James Gunn ha per tutte le forme di vita, in particolar modo per un procione parlante in CGI, che è stato il suo ingresso nel MCU e la base emotiva su cui poi ha generato la trilogia. L’ultimo capitolo della space opera targata James Gunn vede così l’inventiva e l’imperfezione affettiva di Rocket – come quella dei Guardiani – scontrarsi fatalmente con il perfezionismo malato, perverso, cinico e anaffettivo dell’Alto Evoluzionario, il tutto suggerito dalla contrapposizione musicale tra quest’ultimo e i suoi avversari: il pop-rock scanzonato, emotivo ed imperfetto degli anti eroi spaziali contro la musica classica all’insegna della perfezione dello scienziato pazzo intergalattico.

 

 

Continua nella sezione post: Guardiani della Galassia Vol. 3: l'addio di James Gunn al MCU (parte 2)

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