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Gli orsi non esistono

Regia di Jafar Panahi vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Gli orsi non esistono

di laulilla
8 stelle

È difficile scrivere la recensione di questo film tacendo della realtà infuocata di questi giorni in Iran, dove non le sole donne si ribellano, ma anche i maschi non sono più disposti ad accettare le leggi degli Ayatollah applicate sadicamente dalla “polizia morale” che tortura e uccide senza distinzione di sesso.

 

Uomini e donne, calpestati nella loro dignità e umiliati nei loro diritti, sono finalmente scesi in piazza sapendo di rischiare la galera e la vita.
La voce della cultura occidentale non si è fatta attendere: alle lotte disperate della popolazione iraniana si sono unite le proteste sdegnate e il simbolico gesto di solidarietà del taglio dei capelli. Il nostro mondo, d’altra parte, aveva in passato aiutato e accolto gli intellettuali famosi e i cineasti che erano fuggiti e che qui hanno continuato a lavorare e a farsi stimare, mentre altri, più giovani rimasti in patria erano stati ridotti al silenzio.

 

Più “fortunato”, forse per ragioni di età, Panahi: un certo numero di film girati in Iran  e premiati all’estero lo avevano reso famoso urbi et orbi; da tempo tuttavia egli è costretto a girare clandestinamente, per effetto di una condanna del 2010 che glielo impedisce per vent’anni, così come gli impedisce di uscire dai confini nazionali.

 

Dal 2010, dunque, il regista, diventato abilissimo a maneggiare gli strumenti del proprio lavoro ben camuffandoli sull’automobile dei suoi viaggi, ci racconta la realtà della sua terra, così della capitale (Taxi Teheran, Offside) come delle campagne (Tre voltisempre prestando attenzione al mondo marginale e arcaico degli ultimi e dei perseguitati, nonché ascoltando i più minuti problemi della varia umanità incontrata spesso accidentalmente lungo la strada, ciò che accade anche in questo film.

 

La vicenda di quest’ultimo film (in poche parole per evitare troppo spoiler)

 

La prima scena sembra mostrarci una storia d’amore che sta per concludersi: in una città turca di confine una coppia di innamorati sta litigando. Una donna dovrebbe partire: ha ottenuto un visto; il suo fidanzato le ha procurato il falso passaporto, ma non volerà con lei, che ora, per questo, vorrebbe rinunciare al viaggio…
Le scene che seguono ci rivelano a poco a poco che quel litigio, quel volo, i due innamorati, i passanti, i curiosi sono gli interpreti e le comparse di un docu-film che Panahi dirige da lontano, attraverso la connessione Internet molto debole del suo portatile, da una stanzetta malandata che gli ha affittato – in una cittadina in capo al mondo vicina al confine – un signore gentile, che vive con la famiglia nella palazzina attigua e che si adopera con la vecchia madre per rendere il suo soggiorno confortevole.
Il modo della rivelazione della presenza remota del regista suscita in noi una emozione inattesa: ci chiediamo se realtà e finzione siano due aspetti dello stesso dramma, oppure se solo ora siamo nel vero film di Panahi, quello drammatico del proprio esilio.

Vedremo presto come non solo i due momenti non siano separabili, ma come i contatti indispensabili con il cast che lavora per lui, debbano avvenire di notte lungo le strade sterrate e deserte che portano il regista a due passi dal confine con la Turchia, varcato il quale, finalmente, egli potrebbe ritrovare la libertà. Come dappertutto, la zona che precede il confine è solo apparentemente deserta: uomini poco raccomandabili, che controllano il contrabbando di droga o di organi umani, vi si aggirano e chiedono un pedaggio a chi vorrebbe passare, quando già, oltre il bosco, gli si apre la visione del Mar Caspio…
Panahi, però, non vuole abbandonare il proprio paese, né gli amici che ama e che hanno fiducia in lui e nel suo cinema: inverte, pertanto, la direzione dell’auto e torna nella casa malandata in affitto, senza dare nell’occhio.


Incredibilmente, da questo momento iniziano i suoi guai: il suo viaggio era stato notato e per un certo tempo spiato; i suoi movimenti non erano sfuggiti ai curiosi del villaggio che credendo alle arcaiche leggende superstiziose non si sarebbero mai avvicinati a quel bosco, abitato dagli orsi avidi di carne umana.

La voce del suo ritorno indenne dalla terribile esperienza era arrivata all’orecchio dello “sceriffo locale”, e stava coinvolgendo stranamente l'”onore” di qualche stimato capo famiglia, e dei figli promessi sposi dalla nascita, che delle promesse familiari non volevano sentir parlare.

 

Accusato di aver fotografato illecitamente volti e immagini, egli era stato travolto da un guazzabuglio di inattese rivelazioni sugli usi e costumi primitivi, ma sacri, del villaggio e aveva compreso che ormai, per lui, era tempo di andarsene per fare ritorno a Teheran, appena in tempo per vedere gli esiti tragici delle rivalità amorose che quel singolare concetto dell’onore aveva provocato.


Se gli orsi di quel bosco non esistono, se sono un’invenzione dei potenti per mantenere buoni e tranquilli i poveracci, a far paura davvero a Panahi è l’ignoranza superstiziosa di chi rifiuta di usare la ragione e non si libera dalle tenebre dell’oscurantismo delle antiche dicerie, che il potere politico, non solo iraniano, tenacemente difende nel rassicurante nome dell’identità sociale e familiare.
Panahi, che era riuscito, in condizioni di libertà vigilata, a concludere miracolosamente questo bellissimo film, forse il suo più lucido e cupo, è ora tornato nuovamente in carcere, dopo una condanna a sette anni per aver difeso, senza nascondersi, un gruppo di intellettuali dissidenti 

 

 

 

 

 

 

 

Per chi vive in questa parte del mondo, che consideriamo libero, è tuttavia francamente difficile comprendere le ragioni di tanti, troppi, premi non assegnati: vale per il mancato Nobel a Salman Rushdie, come per il Leone d’oro mancato a Panahi.
Il veneziano Premio speciale della giuria, infatti, non è la stessa cosa sul piano simbolico, e lascia l’impressione (e non è la prima volta) che le scelte dei giurati abbiano risposto a logiche extra-artistiche, nonostante la pomposa definizione di Rassegna d’Arte Cinematografica che la Biennale continua a esibire.
Il Leone, infatti, non sarebbe andato al perseguitato politico, ma all’artista, perché il film di Panahi è soprattutto una grande opera d’autore.

 

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