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Il sol dell'avvenire

Regia di Nanni Moretti vedi scheda film

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La recensione su Il sol dell'avvenire

di EightAndHalf
7 stelle

Pensieri sparsi su un film che è di per sé sparso: l'ennesimo collage di un regista da sempre dada, per il quale non è la rivisitazione dei singoli segmenti di film (di verità) ad essere il punto, ma il modo in cui quei pezzi sono messi assieme. Un collage, appunto, come di tanti piccoli racconti (Caro Diario), di pagine di giornale (Aprile), di riflessioni politiche (La Cosa). In un modo o nell'altro, i film di Moretti sono sempre stati collage, foss'anche di timori esistenziali (Mia madreHabemus Papam), di sketch (Ecce Bombo), di sogni o piccoli deliri (Palombella Rossa). Cos'altro sono i Tre piani in tal senso?, tante storie, combinate assieme, a comporre un puzzle che è poi il condominio di Eshkol Nevo. 

Dunque opere stilisticamente eterogenee, non soluzioni ma miscugli. E nel Sol dell'avvenire a divenire parte di un miscuglio sono i suoi vecchi film, e da pezzi di quei film deriva l'angoscia tutta felliniana di cercare un film nuovo, com'è sospettabile e prevedibile da un autore così novecentesco. E come negare, d'altronde, come Moretti si mostri sempre più estraneo dal suo presente, tanto più va avanti con l'età e tanto più si inoltra nel nuovo Millennio. E' chiaro che il nuovo è distaccato (Tre piani), lontano, impenetrabile, ed è al massimo una macchietta (l'irresistibile dialogo con i produttori di Netflix), ed è chiaro che quindi il bordo fra i pezzi del collage suddetto sarà ancora più netto e divisivo. Una scena dopo un'altra scena dopo un'altra scena, una canzone dopo una canzone dopo un'altra canzone. 

Oltre al fatto che sfiderei qualsiasi regista ad essere così candido e allo stesso tempo a mettere in piedi una compilation ad hoc così commovente di cose che poi appaiono benissimo tutte assieme, in una sintesi impossibile, surreale e, appunto, dada; ma trovo inoltre che Il sol dell'avvenire abbia da dire sul modo in cui Moretti stesso guarda ai suoi film. Non è, per intenderci, Nymphomaniac, in cui l'autocitazione di von Trier fa parte di un vortice feticistico e masochista. Moretti ha interesse a capirsi: dopo che in Aprile non capiva l'Italia, ora non capisce se stesso. Da dove partire se non dal suo cinema? 

E' vero, è felliniana la conclusione del suo Sol dell'avvenire; è anche felliniano quello che dice sottotraccia, e cioè che il suo cinema non è altro che un continuo tentativo di sabotaggio delle cose, interrompere un set per un capriccio così come immobilizzare un sogno per cominciare a dirigerlo, così come interrompere un momento storico per interrogarlo, così come interrompere un dialogo per uscire dal rischio della banalità e dello sconforto. Eppure la nota di novità di un regista che ormai sarebbe comunque liberissimo e in pieno diritto di "fare sempre lo stesso film" è che gli occhi con cui incolla queste parti fra loro sono i suoi, e anche le parole (sono solo parole) sono le sue. Letterali o meno, sono dubbiose e quel dubbio non può invecchiare. Le sue immagini esistono all'infuori di lui e lui le guarda da fuori, in un cortocircuito che si ravviva continuamente. Non è un caso che Moretti sembri tanto un critico cinematografico quando parla di inquadrature (la violenza secondo Renzo Piano, Scorsese e Coppola), di etica dell'immagine, di tempo di una sequenza (Breve film sull'uccidere), e che poi nei suoi film i tempi siano difettosi, la regia invisibile, le inquadrature discrete. E' un'inconciliabilità da cui non può uscire. Quindi non resta altro che cucire, accostare, avvicinare, e vedere con candore e sincerità, come un empirista un po' pazzo, cosa possa venirne fuori. Il sol dell'avvenire sembra un film che è successo e Moretti non se n'è neanche accorto, e va benissimo così.

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