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Rapito

Regia di Marco Bellocchio vedi scheda film

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La recensione su Rapito

di lamettrie
10 stelle

Un capolavoro. Sotto ogni profilo: storico, psicologico, estetico. Con un finale sorprendente, beffardo e tragico: il crimine del plagio è riuscito. La vittima, per tutta la vita, ama i suoi carnefici, ed odia i suoi liberatori.

La lettura storica è ineccepibile: non c’è forzatura, ma il polso, l’equilibrio e la misura richieste dallo storico trovano efficace attuazione. Si intende che casi così non sono stati isolati, ma non si vuole far credere che la Chiesa sia stata solo quella che appare in questo ritratto tragico. Come neppure si può negare che ciò sia avvenuto in modi sistematici.

Al momento di un cambiamento epocale: splendide le scene in cui gli uomini di Chiesa vi si devono adeguare. Il papa ha attacchi di cuore per quanto perde il potere terreno, nel 1859 sull’Emilia e altro, come su tutto nel ’70. Pio IX poteva ben dire: «Come si può pensare che il papa si faccia influenzare da dei sovrani?», ma non è più il tempo ormai per tali arroganze. L’inquisitore Finetti può ben dire in carcere: «Come rappresentante della Chiesa, non posso sottostare agli ordini di un’istituzione inferiore (come lo stato)», ma è ben rappresentato il passaggio di quegli anni: la Chiesa al di sopra di ogni legge umana, da tanti secoli, non è più tale. Anche loro sono sul banco degli imputati per la violenza, lì commessa nel rapire un bambino alla sua famiglia ebrea, solo perché il bambino era stato battezzato di nascosto.

Notevole pure che la battezzatrice improvvisata abbia fatto ciò in quanto a sua volta vittima dell’ignoranza e del fanatismo favoriti dalla società impostata dalla Chiesa medesima; e che abbia rivelato solo sei anni dopo il suo atto per farsi dare dei soldi, per lei indispensabili, dalla Chiesa, che li ha tirati fuori subito, credendo di trarre vantaggio da un crimine.

Peraltro la fede non è affatto solo demonizzata, come si potrebbe credere, trattandosi dell’illuminista Bellocchio, che non ha mai dispensato critiche alla fede cattolica, come ad ogni istituzione potente e oppressiva in generale. È vero che la fede genera anche fanatismi, come è successo e il film mostra; ma è altrettanto vero che per molti è, ed è stato, un elemento identitario per la propria stabilità psicologico. Un elemento sentito, come è successo e il film mostra (Finetti in carcere, gli ebrei più volte, specie nel pericolo e nella tragedia…).

Splendido è l’occhio, costretto al silenzio, del bambino sull’insensatezza della cupezza cristiana: tutte queste immagini di sofferenza, di tristezza, e di contrizione per addossarsi colpe nemmeno proprie. Bellocchio ha buon gioco nell’esibire, attraverso l’occhio ingenuo, candido e incorrotto del bimbo, gli eccessi di un’educazione innaturale al dolore come necessità primaria in questa terra, inaggirabile (se non in un’altra vita). Stupenda la scena in cui il piccolo toglie i chiodi che fanno sanguinare Cristo.

La pulizia dell’infanzia violata, nel suo diritto alla freschezza, alla gioia, ed a non essere vittime di plagio e di educazioni inutilmente colpevolizzanti e rattristanti, è un accenno nietzschiano, che si unisce a quello foucaltiano della denuncia delle istituzioni oppressive.

I bambini cercano di allearsi fra loro in quella tragedia della fede imposta. «Dobbiamo farci furbi» per finire la commedia prima possibile, si dicono tra loro i bimbi ebrei reclusi; ma la verità comunicativa ed affettiva è negata: quindi la sofferenza mentale è inevitabile, con l’oppressione del pensiero e delle emozioni. A maggior ragione se in tenera età, dove gli anticorpi contro il plagio sono ovviamente non ancora efficaci (non a caso Ignazio di Loyola disse, parafrasando: «Datemeli a quattro anni, e li avrò per sempre»).

Indimenticabile è anche il rapporto col bambino che soffre di cuore nel letto: chiede affetto, e il piccolo Edgardo, il protagonista, glielo dà con un bicchiere d’acqua. Ma questi tace quando il piccolo malato gli chiede: «Morirò?». Diventati adulti troppo in fretta, scippati della spensieratezza (ma la critica in generale è all’educazione religiosa, perché anche nella famiglia ebraica non regnava certo la leggerezza), i bambini si trovano poi ad interrogarsi in modo tragico sulla morte del loro coetaneo: «Simone è stato molto fortunato» perché va subito in paradiso, dopo aver sofferto in quel modo. Così si sentono dire al funerale, ma tra di loro come possono giustificare questa tragedia con l’infallibile provvidenza di Dio? «E’morto, forse non abbiamo pregato abbastanza?»; non hanno altro da dire, anche perché così è stato insegnato loro; ma, dentro di loro, i conti non tornano.

I religiosi, tanto più quanto più hanno fatto carriera (o intendono farla) sono arcigni, severi, tristi: cattivi. Indimenticabile l’interpretazione di Gifuni nei panni del gelido e implacabile inquisitore domenicano Finetti, ma anche di Timi come cardinale Antonelli, consigliere di un papa ben interpretato da Pierobon nei suoi deliri di onnipotenza, che lo portano con disinvoltura, addirittura, a compiere scientemente il crimine di sottrarre un bimbo alla sua famiglia solo per costringerlo ad un’altra fede.

Nemmeno le donne fanno figura migliore: in un contesto maschilista come quello cattolico, contano di meno, ma restano viscide: vogliono indorare un crimine psicologico con la maschera della bontà, materna e cristiana.

La vittima di questa coercizione finisce per indentificarsi nella maschera che gli hanno ingabbiato addosso. Il finale mostra che lui sta dalla parte dei suoi carnefici. Ripudia la famiglia, che non vuole più vedere, se non per cercare di battezzare la madre in punto di morte; la quale con dignità lo respinge, tragicamente. Neppure è andato al funerale del padre.

Ha dato sfogo alla sua legittima rabbia contro i suoi oppressori: aggredisce il papa sia da vivo che da morto. Ma in realtà il papa ha vinto: ha insistito per strappare il suo piccolo suddito ebreo (e la discriminazione, odiosa e umiliante, contro gli ebrei da parte dello stato papalino è ben resa; del resto l’antisemitismo, come ideologia, è un’invenzione cristiana, agli occhi del rigore storico) alla sua famiglia e alla fede dei suoi avi, e ce l’ha fatta. La vicenda storica, fedelmente rispettata, mostra come lui sia morto da religioso cattolico, confinato in Belgio fino a tarda età.

Il delitto è riuscito: il lavaggio del cervello ha dato i suoi frutti. Si insinua il dubbio: quanti altri hanno abbracciato la fede in modo apparentemente sincero, ma solo sotto pressioni orrende, come Edgardo?  «Lo facciamo per il tuo bene», gli dicevano: intanto lo facevano impazzire, mettendolo contro la verità dei suoi affetti più profondi.

Tra questi svettano i genitori: grintosa e indimenticabile, nel “non detto” soprattutto, la madre: una straordinaria Barbara Ronchi, viscerale, che fa di tutto con intelligenza perché il figlio si ribelli, usando le pochissime armi non violente che i sistemi oppressivi lasciano. L’assenza di dialogo e l’imposizione forzata appaiono evidente cifra comunicativa di quel clero.

Il padre è più debole, non riesce per limiti di carattere a fare quello che potrebbe, per arginare l’orrore; ma Fausto Russo Alesi è splendido proprio nella resa della sua pusillanimità, nei suoi tormenti repressi. Può, fra l’altro, ragionevolmente dire alla moglie: «Edgardo ha paura, non è più spontaneo ed affettuoso». Pur nei limiti comunicativi di tutti, il linguaggio degli affetti è gestito infatti in modo sublime dalla sceneggiatura, che del resto non sbaglia un colpo, cosi come tanti altri fattori: scenografia, costumi, che restituiscono un contesto storico curato perfettamente. Ma anche colonna sonora e fotografia sono meravigliosi, con una camera anche ben mossa nelle scene più drammatiche. Il papa strisciante sulle scale in penitenza è sublime, come anche quando cade in un’altra scena, conscio dello sbriciolarsi del suo potere.

A proposito di potere in frantumi, cos’ è il dogma? I bambini al catechismo lì devono rispondere: «Credere che una cosa è vera anche se non si possono fare domande in merito», cioè anche senza motivi per credervi. Infatti, l’indomani della perdita del potere temporale, alla breccia di Porta Pia qui splendidamente rappresentata, questo Pio IX ha promulgato i dogmi dell’infallibilità pontificia (cioè la sua), come anche dell’immacolata concezione della Madonna. Forse l’unico difetto del film (che termina alla morte di Pio IX, nel ’78) sta nel non aver sfruttato, en passant, queste due opportunità, così significative.   

Come film sul Risorgimento (peraltro è lungo più di due ore, ma non stanca mai), anche, è splendido, pure per l’ineccepibilità dell’inquadramento storico. Ce n’è bisogno, soprattutto dopo il grande Magni, di una rivisitazione non disonesta, né approssimativa, né retorica, di questo nodo cruciale della società italiana e cattolica.

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