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Le buone stelle

Regia di Hirokazu Koreeda vedi scheda film

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La recensione su Le buone stelle

di Antonio_Montefalcone
8 stelle

La famiglia, esaminata da Hirokazu Kore-eda, in tutte le sue complesse sfaccettature.

Terminata la trasferta in Francia, dove ha girato “Le verità” (2019), il cineasta giapponese Hirokazu Kore-eda torna in Oriente e di nuovo a tratteggiare con delicatezza e sensibilità i contorni complessi della sua poetica filmografica, quella a lui più elettiva e che poggia sul macro-tema della famiglia, famiglia intesa qui nella sua accezione più estesa possibile.

La sua ultima opera infatti, “Le buone stelle” (più pertinente il titolo originale, “Broker”: intermediario d’affari, “venditore”), prodotta in Corea del Sud e nella lingua coreana (è la prima pellicola del regista girata in lingua coreana), ritorna proprio a dibattere il delicato argomento dei legami familiari (di sangue e non), di genitorialità biologica e di rapporti affettivi nella società contemporanea giapponese.  

 

Come in molti dei suoi lavori precedenti, vedi “Little Sister”, “Father and Son” (Premio della Giuria a Cannes nel 2013), “Ritratto di famiglia con tempesta”, e, soprattutto, per gli stessi espedienti narrativi, “Un affare di famiglia” – film vincitore della Palma d’oro a Cannes 2018 – il regista nipponico rielabora sempre più radicalmente e definitivamente il termine «famiglia», svuotandolo del suo significato convenzionale e reinterpretandolo non più come un insieme di persone consanguinee, bensì come individui che per propria scelta decidono di vivere assieme e affrontare le gioie e le avversità dell’esistenza.

Una scelta, però, non soltanto caratterizzata da valori eudaimonici che mirano al benessere individuale/esistenziale, ma anche a valori più impegnativi come il pathos, l’impegno personale e la responsabilità; estendendosi così verso una nuova visione di sfera familiare che abbraccia più orizzonti e di conseguenza accetti più problematiche annesse e connesse, derivanti  e riconducibili a questa.

La parentela (a cui siamo legati involontariamente per vincoli di sangue) diventa così l’unione di persone con cui stiamo bene e al quale siamo volontariamente legati.

E qui ritroviamo «le buone stelle» del titolo italiano, se per esse si possono intendere anche e soprattutto le condizioni di “felicità” in cui versano quelle persone che si ritrovano ad avere la fortuna di “essere in compagnia di un buono spirito”, di uno “spirito-guida”, di chi “sa come prendersi amorevolmente cura di loro”, e per/con le quali riescono alla fine a godere di uno stato d'animo, tutto interiore e spirituale, di provata serenità, anche malgrado le avversità esistenziali e le storture socio-economiche o storico-politiche a cui resistere con forza e unione (stavolta i riflettori sono puntati contro l’indurimento delle leggi per l'adozione e sulle politiche di Welfare infantile).

 

scena

Le buone stelle (2022): scena

 

La trama:  a Busan, la giovane madre So-young decide di lasciare il figlio appena nato nella «Baby Box» [1] di un ospedale (una di quelle scatole dove in Corea del Sud le madri in difficoltà possono lasciare i figli appena venuti al mondo, per destinarli all’orfanotrofio e all’adozione). Ma il giorno dopo lei ci ripensa, torna sui suoi passi, e scopre che in realtà il figlio è stato preso da Sang-hyun e Dong-soo che gestiscono un'attività clandestina di contrabbando di bambini per i quali cercano i genitori giusti, nonché i migliori offerenti, a cui venderli. La coppia di trafficanti (o di “intermediari”, broker appunto) convince la ragazza che quella sia la soluzione migliore, promettendole parte del guadagno, e insieme si mettono in viaggio alla ricerca di una famiglia disposta a pagare per il piccolo Woo-sung. Ma sulle tracce di questo strano gruppo ci sono due poliziotte in borghese, che indagano anche su un omicidio…

 

Una storia interessante e tutta coreana dunque, che inizia a Busan e diventa poi un road-movie coinvolgente e piacevole, emozionante e riflessivo.

In questa sorta di famiglia allargata/improvvisata, capitanata dal trascinante Sang-yeon (un bravissimo e convincente Song Kang-ho, il Mr. Kim di “Parasite” e meritatamente premiato come miglior attore all’ultimo Festival del cinema di Cannes), c’è anche la madre del bambino, una donna in fuga che necessita di denaro. E sulle sue tracce c’è anche una poliziotta molto determinata.

Questi personaggi si/ci interrogano continuamente su cosa sia più giusto fare, e, attraverso vari punti di vista analizzati durante il viaggio, l’opera esamina situazioni e dettagli, incontri e attraversamenti, casi e dilemmi, ma soprattutto mette in scena la relatività della morale, la complessità dei legami familiari, il senso ultimo dello stare al mondo.

Da queste precise ed essenziali domande, il regista sa suggerirci che se la famiglia non è necessariamente una questione di sangue, e se la morale non dipenda soltanto dalla legge, allora alcune risposte si possono (ri)trovare nell’empatia, nei buoni sentimenti, e in fondo nelle sensibilità dell’individuo. Qualsiasi dramma sociale può essere illuminato da un sentimentalismo sincero e veramente inclusivo, accogliente, formativo. Come quello presente nel calore affettivo delle migliori famiglie, anche alternative, allargate o improbabili. E in quest’opera più che in altre questo tipo di famiglia è tutt’altro che disfunzionale, bensì al contrario, veramente fulcro di potenzialità e orizzonti, di incontri riparatori e vuoti da colmare, perché sempre all’insegna dell’accudimento e del contatto umano.

 

Ad evidenziare e impreziosire questo chiaro ma complesso contesto narrativo e argomentativo, non è soltanto la bravura di un cast spontaneo e naturale, ma anche e soprattutto lo stile di regia che sa dipingere queste vite disperate con misura, delicatezza e grazia sentimentale, ma anche struggente poesia (una scena emblematica, il toccante dialogo sulla ruota panoramica); e che sa iniettare nel pessimismo di fondo una lieve speranza verso il futuro (ad immaginarlo migliore sono i sognanti occhi del bambino orfano che si unisce al gruppo durante il viaggio).  

 

Broker” ha senso e dignità, perché è un inno alla vita, alla sensibilità e alla solidarietà (dalla culla in poi), alla fiducia nell’umano sentire e volere. Forse non è un capolavoro, forse non è la miglior pellicola del regista nipponico, forse la sceneggiatura non è sempre all’altezza di un soggetto tanto evocativo, e ostacoli talvolta la profondità dello sguardo dell’autore, però è un’opera efficace ed emozionante che non distoglie lo sguardo dai problemi e dalle miserie, ma sa trovare la tenerezza nella tragedia, l’umorismo nel dramma, l’amorevolezza nella solitudine/abbandono. Tutti i personaggi sembrano come “orfani” bisognosi di affetto e dal cuore grande, “costretti” a fare gruppo e ad adattarsi pur di andare avanti quotidianamente, ai quali si perdona ogni discutibile scelta e azione: la loro forza/salvezza/redenzione è offerta principalmente dal senso di appartenenza, dalla loro unione. Un unione che li fa trovare una dimensione che supera ogni legge o condanna morale. Grazie all’adesione col loro (nuovo) punto di vista, lo spettatore ha modo di comprenderli, accettarli e alla fine di stare anche dalla loro parte, quel che si pensava ed appariva all’inizio sbagliata. E in questo è un film incentrato su un utile e più equilibrato modo di guardare alla vita.

 

Elegante e raffinata è inoltre la cura formale, molto attenta a inquadrare strade e paesaggi, luoghi transitori e malinconici, cadenzare ritmo e sensazioni, creare atmosfere e stati d’animo dolenti (la fotografia dalle tonalità grigie), incasellare i personaggi e le loro dinamiche in reiterati campi e piani fissi, tratteggiare ogni attimo fondamentale, situazione o dialogo in modo calmo, pudico e anti-retorico (al netto di alcuni passaggi un po' macchinosi, c’è da parte del regista molta attenzione ai dettagli, ai gesti, ai silenzi, ai non-detti, e ai conflitti sempre tanto asciutti).

Nelle giornate di silente sofferenza si rivela tutto il fascino magnetico di una natura umana sfaccettata e complessa. Sembra di rivedere il miglior cinema neorealista. L’opera rimanda al cinema di Yasujiru Ozu [2] – della quotidianità e dell’anima umana toccata ed elevata – , rievocacerte pellicole divenute classiche, daIn nome di Dio” di John Ford al cartoonTokyo Godfathers” di Satoshi Kon; e riesce a toccare le corde più intime dell’anima dello spettatore con una semplicità che solo le storie autentiche sanno possedere.

Insomma, è una imperdibile opera, un nuovo agrodolce ritratto di famiglia dagli attimi quieti e tempestosi. Un dramma on the road che denuncia quando punta al sociale e commuove quando mira al cuore, invitando quest'ultimo a (ri)trovare un pò più di comprensione e umanità verso il nostro prossimo bisognoso di vita e di affetto…

 

ULTERIORI APPROFONDIMENTI LEGATI AL FILM:

 

[1]  L’accresciuto e controverso fenomeno dei «Baby Box» dove poter lasciare alle cure altrui un bimbo a cui non si può dare apparentemente un avvenire, che ispira questa pellicola, rimanendone suo motore narrativo, è davvero un aiuto a giovani madri alle prese con gravidanze indesiderate (generate fuori dal matrimonio o dopo aver subito una violenza sessuale) e/o afflitte da problemi economico-sociali, oppure incentiva queste giovani madri all'abbandono dei propri figli? https://www.asianews.it/notizie-it/Seoul,-salvati-dalla-%E2%80%98baby-box%E2%80%99-del-rev.-Lee-oltre-1.500-neonati-non-voluti-46139.html

 

[2] Il cinema (imperdibile) del mio regista orientale preferito, quello del grande Yasujiru Ozu: https://www.linkiesta.it/2015/07/il-cinema-di-yasujiro-ozu-quanto-di-piu-simile-al-paradiso/  nonché: https://blogs.indiecinema.it/ozu/

e:

https://www.paoladigiuseppe.it/ozu/   

 

Le buone stelle (2022): Trailer ufficiale italiano

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