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Il mestiere delle armi

Regia di Ermanno Olmi vedi scheda film

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Marcello_Menna

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La recensione su Il mestiere delle armi

di Marcello_Menna
2 stelle

E’ proprio una volontà di potenza che incita i più consapevoli all’avventura: si tratta, per loro, di distaccarsi – da un mondo affannato. Si tratterà, per loro di forgiarsi un destino all’altezza di questa esigenza e non a misura del mondo. Come dire che quel destino dovrà essere solidale e rigoroso… (da Stephane R., Ritratto dell’avventuriero, SEB, Milano).
Ermanno Olmi ha ancora una volta donato una perla nel panorama da industria culturale del cinema omologato (ed omologante). Il regista-poeta con il film Il mestiere delle armi è riuscito ad opporsi alla svalorizzazione dell’immagine diffusa dai media, onnipresente e ipnotizzatrice, oscuramente pedagogica nei confronti dell’immaginario dell’essere umano dalla culla alla tomba, dall’infanzia alle scelte di vita più importanti. In una recente intervista il regista bergamasco ha affermato (a proposito delle scene del film in cui si incontrano lo sguardo di un bambino e del cavaliere): «Noi abbiamo la responsabilità di ciò che facciamo scorrere davanti allo sguardo dei bambini».
Ecco allora un film tutto per i giovani, come ha rilasciato il regista. Ci sono delle cose che i giovani devono sapere è la prima è: uscire dalla prigione in cui vengono rinchiusi quotidianamente dai meccanismi creatori di falsi bisogni della società dei consumi.
Olmi invita i giovani ad uscire per iniziare a guardare il mondo con occhi di curiosità ed ammirazione, di scoperta. Questo vale anche per la conoscenza storica (alla quale Olmi propone un ottimo invito con i commenti alla vicenda di Pietro Aretino e Niccolò Macchiavelli) e la riscoperta della propria appartenenza ad un territorio ed alla natura (in questo caso la nebbia e l’umidità della pianura padana quando ancora il fiume portava giù i lastroni di ghiaccio invernale). Ma c’è un’altra cosa che i giovani devono sapere: riscoprire dentro di sé il guerriero che non accetta che le cose vadano necessariamente così (oltretutto se decise da chissà chi e contro il rispetto della dignità umana) ed accoglie la presenza nel suo cuore del palpitare maschile: il furor, la velocità, il segreto, la potenza senza autorizzazione. Il personaggio di cui Olmi racconta la vita è Giovanni de’ Medici, avventuriero e capitano di ventura, che questo cuore lo ascoltò.
Nel 1526 i Lanzichenecchi di Carlo V scesero in Italia per conquistare Roma, portando distruzione nelle campagne tra il Po e le paludi mantovane. Solo un uomo avrebbe potuto fermarli, un uomo (a detta del Machiavelli) di eccezionale grandezza d’animo e propositi, di coraggio ed esperienza: Giovanni dalle Bande Nere. Occorreva un vero uomo di ventura, capace di agire senza speranza, senza illusione, guidato da lucidità e disperazione.
La sua vita fu di solitudine: orfano di padre, avanti e indietro tra mercenari e cavalli, traditori e voltafaccia, devoto rispetto per la famiglia e capacità anche di ascoltare il desiderio nei confronti di belle donne di corte. La solitudine è un tratto comune ai grandi uomini della storia risalendo poi fino ai grandi miti come quello di Gilgamesh che dopo la morte dell’amico se ne va ramingo per le pianure. Infatti a vivere soli, non si scappa dalla preoccupazione del proprio destino, un destino che Giovanni riconobbe nell’essere per l’azione. Nella sua vita l’azione si presentò come il dono assoluto di sé, per un ideale interiore più che un’ideologia, senza rimorsi e rimpianti, senza troppo pensare.








…un uomo di ventura capace di agire senza speranza
e con lucidità…


Ma la sorte concede raramente agli uomini di sfuggire al loro destino (3): proprio vicino alla vittoria definitiva il condottiero fu colpito (alle spalle e con l’inganno) da un colpo di falconetto alla gamba. Il destino di morte che accompagnò tutte le sue gesta - evidente grazie ai rimandi del regista sull’immagine dell’arma da fuoco venduta ai Lanzichenecchi dal traditore Federico Gonzaga - non tardò a compiersi, quasi come un dovere. Portato a Mantova fu curato in ritardo ed accettò che gli venisse amputata la gamba ormai in cancrena. Pietro Aretino racconta che Giovanni allontanò tutti i servili cortigiani e fece lume al medico da solo durante la terribile operazione. La morte lo raggiunse poco dopo, nel novembre 1926, a soli ventotto anni. I Lanzichenecchi giunsero comunque a Roma, saccheggiandola.

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