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Duello a Berlino. Versione integrale

Regia di Michael Powell, Emeric Pressburger vedi scheda film

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La recensione su Duello a Berlino. Versione integrale

di Mr.Klein
10 stelle

Ci sono pochi film che vengono annunciati sin dai titoli di testa,e ancor meno sono quelli che restano fedeli alla promessa fatta da quelle prime immagini per tutta la loro durata,senza una sbavatura o un inceppo nel ritmo.
Uno di questi è sicuramente Duello a Berlino dei dimenticati Archers Powell e Pressburger:dimenticati perché praticamente tutti i loro film risultano irreperibili,per vedere i quali bisogna prestare molto attenzione alla parsimonia di alcune illuminate scelte di palinsesto,ormai rigorosamente fuori dalla televisioni generaliste.
Viene meno,ogni volta che si assiste alla visione di un loro film ,la sicurezza con cui far capire quanto la singolare bellezza delle opere di questa coppia di inventori all’interno della macchina cinematografica corrisponda alla loro inclassificabilità,per la mobilità con cui il film scivola spostandosi dalla cura del ricamo fino alla preziosità dell’intarsio,per il gusto dell’iperbole romantica e della concentrazione con cui si cerca di distinguere l’eccezionalità di due destini che marciano l’uno accanto all’altro anche quando si separano in un’imprevedibile simbiosi.
E’ la radicalità del pensiero che ancora oggi conquista,la filosofia dell’arte di vivere la cui più alta scelta sta nel defilarsi quando è il momento opportuno,pur agendo sempre grazie a principi apparentemente tradizionali.
Per poter trovare un esempio di cinema così potente e così galvanizzato dalla nobiltà del romanzo,forse è necessario fare il nome di Charlie Chaplin(fatte le doverose differenze contenutistiche) per l’ariosità del racconto e la maniacalità della ricostruzione,anche se quello era un cinema che nasceva e moriva con la stretta identificazione con il suo autore,testimone dell’innocenza e la rabbia dell’infanzia,che in questo caso non ha spazio.
Come pure in più di un momento torna alla mente la lezione di Ophuls per la dolce navigazione nel senso autentico del bello che avvolgeva i titoli del maestro tedesco,per l’essenza stessa della finzione,dell’architettura in cui veniva ricomposta la realtà per presentarla solo attraverso la lente della delicatezza inventiva,della malinconia o vivacità scenografica.
A pensarci bene,questo è un film che fa incontrare i personaggi solo durante o all’indomani di un conflitto,che parla di un codice morale di cui a poco a poco quello militar si disfa,che mostra le terre desolate e i prigionieri di guerra in cui non si vede una sola azione bellica,non un atto eroico,non una vittima nel momento in cui diventa tale.
Perché questo ai registi non interessa:la guerra forse può premiare uno stratega,ma non farà mai nascere un eroe.
Si pensi a quanto profetiche sono le parole di Edith(il primo personaggio affidato a Deborah Kerr) nella Berlino in cui avverrà il primo incontro tra Candy e Kretschmann-Schuldorff:”Se ci fossero più buonsenso e cattive maniere,si potrebbero evitare le guerre”;come lo sono quelle dello stesso Theo a Clive quando quest’ultimo viene destituito dal proprio incarico proprio mentre divampa il secondo conflitto mondiale,dimostrandogli l’inattualità dei suoi principi:”Questa non è una guerra per gentiluomini,è una lotta per la sopravvivenza”.
Questo fa di Duello a Berlino(titolo italiano obbligatoriamente sciocco che riprende un solo momento del film) un film concreto e non metaforico,pur non essendo,non volendo essere realistico,in cui si raccolgono le macchie dell’umanità per ridistribuirle con la clemenza e la lucidità irradiate dalla forza penetrante di un melò che diserta la competizione con la tragedia.
Passionalmente britannico(per quanto possa sembrare un ossimoro),visita tutte le diverse stanze della rappresentazione scenica:la commedia in cui si ritrovano gli umori della tradizione inglese(di cui temiamo non si riescano a cogliere,oggi,tutti i messaggi e le finezze),l’operetta della prima parte,l’amarezza insofferente del teatro,il racconto dello slancio emotivo di due diversi caratteri che ha la ricchezza dello scambio epistolare e la nobile coscienza di ciò che si è perso per sempre,rassegnati e rinfrancati al tempo stesso.

Clive e Theo sono l’esempio di come la perseveranza di un codice morale non possa fermarsi davanti alla rivalità imposta da differenti fazioni,da principi maturati in ambienti diversi, e la loro è l’amicizia virile di due caratteri che,non potendo essere più diversi,non si oppongono l’uno all’altro.
Può anche essere vero che ad una prima parte più scintillante e emozionante,proprio per la reinvezione di cui si è detto,ne segue una seconda più piana,almeno nella ricostruzione,ma a ben guardare i due registi non avrebbero potuto esimersi dall’affrontare criticamente la tragedia bellica allora in pieno svolgimento e,rifiutando le istanze del cinema patriottico,la lettura lucida degli eventi viene affidata a chi ne risulta sconfitto,e in questo caso la struggente parentesi della confessione di Theo,affidata ad un memorabile assolo di Walbrook,riassume nei toni della sciagura privata il destino di un intero popolo,e l’amara consapevolezza di come il Male cresca vicinissimo alle persone(“Ho scoperto che i miei figli erano due buoni nazisti,per quanto si possa definire buono un nazista”) riesce ad illuminare,se non con la speranza almeno con il senso di giustizia,l’angoscia inestirpabile di un uomo che parla per tutti i suoi fratelli,definizione che non abbraccia solo i suoi connazionali:lo straniero,per Powell e Pressburger,non esiste quando la coscienza lo rende interprete di una sorte comune,anche se con una prospettiva diversa.
L’originalità del film risiede anche e soprattutto nell’anticonvenzionale omaggio alla femminilità ideale rivestita da Deborah Kerr,una donna che sospende l’infierire del tempo nei cuori dei due militari,incarnazione di un’adesione alla vita che si astiene dal compromesso dell’età e che,qualunque identità le si voglia dare,è la donna non raggiunta dall’oscura prospettiva della rivalità.
Per quanto gli eventi lo neghino,la fine del film sottolinea con una nota malinconica ma non mesta che la vita è un contenitore del grande spazio richiesto dalla felicità,anche quando non si protrae per tutta l’esistenza,così particolarmente potente e incorrotta da fare da ponte tra un’età e l’altra che renda sicuri di come e quanto l’eredità e gli insegnamenti vengano raccolti.
Oggi questo sarebbe un film assolutamente impensabile,e da vedere tassativamente nella versione integrale.

Su John Laurie

Tra le tanti voci del coro che circondano i due protagonisti questa è la più incisiva,un attendente che ha in sé una gloria reticente e che non farà in tempo a trovare posto nella memoria della guerra.

Su Deborah Kerr

Questa,bisogna dirlo,è la Kerr sconosciuta ai più,la dama britannica che presenta la prova di un’intelligenza docilmente comunicativa e di una fine confessione della femminilità ideale,prima che la sua condizione di vera signora venisse trivializzata dalla macchina hollywoodiana. Giovanissima e già cosciente di sé e del significato dello stare in scena,è un usignolo ricco di spirito e di leggera audacia.

Su Anton Walbrook

Il soldatino tedesco che conserva un animo da protagonista delle fiabe consente a Walbrook di affermarsi con una prova di sensibilità acuta,esponente di un onore impotente che non ha timore di farsi strappare le medaglie,di dimenticare la severa tenerezza in cui era maturata la propria statura morale,e lo sguardo vitreo e rassegnato di questo attore di grande compostezza oggi acquista una commozione ancora più definitiva e profetica.

Su Roger Livesey

Nonostante non abbia una bella voce e la presenza scenica talvolta tenda troppo scopertamente alla commedia ridanciana,molto più presente di Walbrook,domina la scena con un personaggio che resta guascone e guerriero nel cuore,in cui l’indomita vocazione a ritornare sul sentiero di guerra si placa suo malgrado quando avverte che la lotta ha perso la dignità del confronto. Magnifico quando è invecchiato,è forse il personaggio che adombra la personalità del regista britannico.

Su Michael Powell

Un interminabile arazzo fatto con i colori vivi della pulsione romantica,un esempio della concezione di cinema nella sua totalità di contenitore di generi e culture.

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