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Billy Elliot

Regia di Stephen Daldry vedi scheda film

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La recensione su Billy Elliot

di FilmTv Rivista
8 stelle

C’è una miniera in sciopero in una città dell’Inghilterra del nord del 1984 (gli anni del thatcherismo più duro). C’è lo scorcio in salita di una strada che si butta direttamente nel mare. Ci sono tutte le case allineate che abbiamo imparato a riconoscere fin dalla fine anni ’50 con il Free Cinema e i dintorni. E i minatori sull’orlo della disperazione, i poliziotti allineati con gli scudi, i padri e i fratelli maggiori ruvidi, attaccati alla boxe, ai picchetti, alla birra. E poi c’è un ragazzino di undici anni che ai guantoni da pugile (tramandati da suo nonno a suo padre e a lui) preferisce le scarpette con le punte rinforzate da ballerino classico. «Ma non vuol dire essere finocchio!», esclama Billy davanti allo stupore adirato del padre e del fratello maggiore. Vuol dire solo una passione e un talento, vuol dire uscire (con una metafora visiva un po’ troppo esplicita) dalla prigione di mattoni e carbone che la vita ha predisposto dalla sua nascita. Figlio di minatori, Billy invece vuol fare il ballerino, il cigno bianco del lago (che apparirà nella scena finale, nel famoso allestimento londinese di tre anni fa, danzato da soli uomini). Un po’ di Loach e, soprattutto, tanto Mark Herman di “Grazie, signora Thatcher!”, dove al posto del balletto e del futuro di un ragazzino («Diamo almeno a Billy una possibilità», dice il padre quando si convince) erano in gioco la passione per la musica e l’onore della banda dei minatori: lo sceneggiatore Lee Hall (che ha seminato nella storia pezzi della sua vita di adolescente a Newcastle) e il regista Stephen Daldry non nascondono i loro rimandi, anche se li lavorano dalla prospettiva dell’adolescenza e del sogno della danza. I balletti improvvisati da Billy (soprattutto quello centrale, tra i muri, sul tetto, per strada) entrano con piglio antirealistico. La retorica dei sentimenti e delle riconciliazioni è tenuta sotto stretto controllo, tanto stretto, però, che rischia di riaffacciarsi e apparire più ingombrante (mentre nel film di Herman era trionfalmente, popolarmente esibita, e perciò “giusta”). Ma la miscela funziona, il ritmo non si allenta, gli attori (in testa la grande Julie Walters maestra di danza) sono perfetti. E poi, chi non ha mai ballato da solo per sfogarsi?

 

Recensione pubblicata su FilmTV numero 10 del 2001

Autore: Emanuela Martini

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