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Gostanza da Libbiano

Regia di Paolo Benvenuti vedi scheda film

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La recensione su Gostanza da Libbiano

di ed wood
8 stelle

Paolo Benvenuti è uno dei registi più appartati ed intransigenti del nostro cinema. Pochi lo conoscono. Evita la mondanità, non interessa ai rotocalchi. E questo perchè fa un cinema che, per rigore stilistico e difficoltà testuale/contenutistica, non ha alcuna possibilità di conseguire un briciolo di successo, nella cine-italietta rozza e caciarona di oggigiorno. In questo indimenticabile "Gostanza da Libbiano", Benvenuti si ispira ai Maestri assoluti del cinema austero europeo: la sacra triade Dreyer, Rossellini, Bresson. In particolare, a livello sia visivo sia tematico, è il danese il principale referente del regista toscano. La compostezza delle inquadrature, con il set squadrato da ogni prospettiva e gli inquisitori ripresi baroccamente dal basso, il naturalismo dell'ambientazione, il gioco simbolista di luci ed ombre rimandano direttamente al capolavoro "Dies Irae". Bresson invece viene tirato in causa più che altro per l'idea di cinema anti-spettacolare e per il richiamo al "Processo a Giovanna D'Arco", poichè sul piano meramente stilistico Benvenuti non ripropone le consuete ellissi del maestro d'Oltralpe, nè l'utilizzo di un montaggio "significante" (dove "gli effetti si rivelano sempre prima delle cause"), prestando tuttalpiù una sporadica attenzione al dettaglio. Ma ciò che colpisce positivamente di questo film è, a mio parere, la sua "italianità" (o sarebbe meglio dire "toscanità", ma dal punto di vista prettamente linguistico, nel Medioevo i due termini potevano anche equivalersi). Ciò che tiene desto l'interesse dello spettatore è la freschezza di una favella che, appena pronunciata dalla viva voce dei personaggi, evoca, sprigiona, spalanca immaginari storico-letterari di straordinaria suggestione. Una sensazione simile pervade "Il mestiere delle armi" di Olmi, ma in quel caso la fascinazione era completa, poichè scaturiva anche dal respiro delle potenti immagini en plein air. In "Gostanza" invece non si esce dalla claustrofobia di prigioni e sale di tortura: l'evocazione del Medioevo, in tutto il suo fascino maledetto, scaturisce unicamente dalla parola. Questa è la chiave per comprendere il vero succo dialettico del film: non tanto una reprimenda contro il dogmatismo violento del clero (alla Dreyer), nè una riflessione sull'ambiguità del Male e su come esso si incarni nelle persone (alla Bresson). C'è anche questo ovviamente, ma c'è dell'altro: il vero confronto/scontro è fra realtà e immaginazione, fra il soffocante grigiore degli ambienti ecclesiastici e la lussuria stregonesca dei luoghi evocati dai racconti di Gostanza, fra l'arido spiritualismo della dottrina cattolica e un satanismo vissuto nella sua accezione più carnale. Le menzogne di Gostanza sono da un lato dettate dalla paura della morte (come Martha, la strega del "Dies Irae" dreyeriano), dall'altra una sfida alla monotona e avvilente concezione dell'esistenza imposta dal Cristianesimo fondamentalista: Gostanza mette sotto scacco l'Inquisizione, forte della sua ambiguità, del suo essere melliflua, spiazzante, stordente, inafferabile. Gostanza è il Male nella sua manifestazione necessaria, creativa, umana. Gostanza porta la Morte dentro di sè, ma anche pensieri, parole, immagini ed azioni che rivelano un vitalismo sfrenato, fastoso, colorato e gaudente. Benvenuti, come in altre sue opere, si pone in bilico fra realismo storico e straniamento didascalico: il testo e l'ambiente ci riportano al tardo Quattrocento, ma la direzione degli interpreti (strepitosa e umanissima la Poli) e la messinscena tradiscono un'attitudine moderna. Sotto questo aspetto, nell'abbinare oggetti e linguaggi desueti ad uno sguardo sempre attuale, Benvenuti si riallaccia alla miglior tradizione rosselliniana. Un gioiello di film, come gli altri (pochi) di questo sottostimato autore.

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