Regia di Baz Luhrmann vedi scheda film
Premetto che non sono un fan di Luhrmann. Il suo cinema, per quanto spettacolare e spesso trascinante, ha il difetto di esserlo anche troppo; preoccupato prima di tutto di appagare l'occhio dello spettatore con uno spettacolo sfarzoso, finisce a volte per sacrificare il messaggio e lo spessore di personaggi potenzialmente indimenticabili (vedere il suo Gatsby per capire cosa intendo). Così, confesso di essere andato in Sala un po' prevenuto. Devo ammettere però che questo biopic su The King ha più punti di forza. Anzitutto, il fatto di palesare alle generazioni più giovani quanto la musica moderna sia debitrice al blues e, di riflesso, alla comunità afro-americana. La formidabile ascesa e decadenza di Elvis, poi, grazie anche ad uno strepitoso protagonista, è resa efficacemente, e descritta come parabola non tanto di auto-distruzione, quanto di creazione e consumo dei propri miti da parte di una nazione che è capace di esaltarli e distruggerli con la stessa rapidità, salvo poi glorificarli in eterno dopo la morte. Anche se poi Luhrmann non rinuncia al sensazionalismo, e l'enfasi qua e là deborda (vedere la scena della messa gospel in cui il giovanissimo Elvis scopre la sua vocazione, o la prima esibizione del pelvis di fronte ad un pubblico di assatanate), il film lascia qualche emozione genuina: di ammirazione e pena, anzitutto, per un artista dotato più che altro di una grande vocalità e classe di performer (praticamente quasi tutti i suoi successi erano cover) ma consapevole dei suoi limiti (la scena con Fats Domino), un essere umano considerato alla stregua di un semplice prodotto da sfruttare senza pietà fino alla morte; di disprezzo, poi, per il viscido colonnello Parker, un Tom Hanks efficacemente spregevole, come mai nella sua carriera.
Sono contento di ammettere che Baz Luhrmann questa volta non mi abbia deluso.
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