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Brother

Regia di Takeshi Kitano vedi scheda film

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Dom Cobb

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Brother

di Dom Cobb
8 stelle

Mi è capitato di rileggere un vecchio articolo che riportava il fatto che Kitano, quando, a suo tempo, presentò "Brother" alla Mostra di Venezia, fu messo fuori concorso (stesso trattamento riservato, alla stessa mostra e nello stesso anno, anche a Claude Chabrol con "Grazie Per La Cioccolata"). Ovvero: passano gli anni, ma mostre e festival del cinema non smentiscono mai se stessi e le loro spesso discutibili decisioni (o sarebbe meglio chiamarle "impuntature"). "Brother" è un film che riflette parecchio il suo autore: non è un caso che il suo gangster si chiami Yamamoto, proprio come l'omonimo Ammiraglio che, durante la Seconda Guerra Mondiale, guidò l'attacco a Pearl Harbor e, in seguito, fu abbattuto dagli americani a bordo del proprio aereo. Kitano, da sempre nazionalista e conservatore, non ha mai nascosto la propria opposizione all'americanizzazione della propria cultura. Nel film, il suo Yamamoto è un "tirapiedi" di un padrino Yakuza eliminato da una famiglia avversaria; al contrario degli altri uomini della famiglia sconfitta, i quali vanno a lavorare al servizio del nuovo padrino, Yamamoto, sempre devoto al senso dell'onore e delle tradizioni, preferisce emigrare dal proprio paese verso gli Stati Uniti, dove vive il suo fratellastro minore (Claude Maki), che sbarca il lunario come delinquentello di mezza tacca. Una considerazione: Kitano sembra prediligere i "losers" (Beat Takeshi non interpreta mai padrini, personaggi al vertice, ma sempre e comunque "gangster di strada", pedine sacrificabili), uomini che, nel bene o nel male, cercano di seguire una propria strada, un proprio codice etico, che li porta regolarmente a finire male. Come se questi valori ormai, nel nuovo Giappone troppo "occidentalizzato", nelle sue nuove generazioni, risultino obsoleti, "fuori moda" (ed il cinismo, la "freddezza" di fondo nella saga di "Outrage" ne sono una riprova altrettanto evidente). Kitano, una volta giunto a Los Angeles, trasforma suo fratello e la sua banda di delinquentelli in criminali specializzati, scatenando una propria guerra personale per il controllo di questo nuovo territorio contro le altre famiglie locali, soprattutto la mafia italiana: difatti fa strage di tutti gli "occidentali bianchi" (se si vuole usare anche questa chiave di lettura) colpevoli di aver culturalmente invaso il Giappone. Tra l'altro, elementi come la guerra tra bande e, soprattutto, le scene, anche ironiche e divertenti, di vita quotidiana dei gangster (l'amicizia di Yamamoto con il personaggio interpretato dall'attore Omar Epps), sono temi cari a Kitano e già trattati in altre sue opere, come per esempio "Sonatine", film ambientato sull'isola di Okinawa, altro luogo denso di significati storici. Anche il finale del film può essere letto sotto questa chiave ideologica, "politica" si potrebbe dire: la morte dello Yamamoto cinematografico, mitragliato proprio dagli uomini della mafia americana (tutti rigorosamente vestiti di nero ed anonimi, indistinguibili quasi gli uni dagli altri) all'uscita dalla caffetteria nel deserto dove li stava aspettando, rimanda ancora una volta al già citato Yamamoto storico: la guerra senza speranza del "samurai" contro un nemico troppo forte ed altrettanto troppo avido (gli "americani" mafiosi pretendono una percentuale eccessiva sui profitti della gang di Kitano). Quasi come, se si volesse trovare l'ennesima connotazione legata all'attualità, in quegli incontri internazionali (i vari G8 o G20) dove è il paese più forte che detta legge. 

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