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State buoni... se potete

Regia di Luigi Magni vedi scheda film

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La recensione su State buoni... se potete

di lamettrie
7 stelle

Un buon film, ma altalenante fra pregi e difetti. Di certo, è un’esaltazione della vita semplice, quella dei bambini, dell’allegria, e degli adulti che per vivere bene devono “essere come bambini” (come avrebbe detto Gesù Cristo). Più discutibile, ma storicamente inappuntabile, è il contraltare di tale semplicità: «chi ragiona non vuol bene a nessuno». In quegli anni Giordano Bruno contestava la “santa asinità di Cristo”, che in questo film è ben esemplificata da Filippo Neri, il quale proprio sembra esaltare l’ignoranza per vivere bene e stare vicini a Dio, e allontanarsi dalla peggiore tentazione, quella della vanità: tutte posizioni che difficilmente si possono sottoscrivere appieno. Resta notevole la sottolineatura sul bisogno, se si vuol essere coerenti al vangelo, di rinunciare ad ogni ricchezza e potere e orgoglio; più discutibile, ma in chiave psicologica, il continuo deprezzamento che il cristiano deve fare di sé, per farsi ritenere peggiore e più indegno di altri, con la conseguente ipocrisia sempre dietro l’angolo. Splendido il finale, in cui Filippo rinuncia alla porpora cardinalizia, e solo così può stare in armonia con sé stesso, con gli orfani per il quale egli era la vera famiglia nell’allegria e nella spontaneità, e soprattutto con Dio stesso.

Magni ha il merito di declinare ancora una volta il suo anticlericalismo in un modo nuovo, mostrandosi lontano da ogni apriorismo: qui incarna il volto della gioia, che è il solo contrassegno della fede, e della semplicità, di contro allo sfarzo e al classismo dei vertici della chiesa. Ma di contro anche all’eccessiva severità di tanti religiosi, celebri per le proprie doti mistiche, rigoristiche e caratteriali, da cui però non traluce quella piacevolezza del vivere senza cui, in fin dei conti, non si può davvero fare un bilancio felice della propria esistenza. Talvolta Magni indulge nell’agiografico: la cena a base di tacchino (novità dalle Americhe allora, segno anche questo della ricostruzione storica sempre fedele del regista romano, che ha scritto anche soggetto e sceneggiatura con Zapponi) vede allo steso desco Ignazio di Loyola, Carlo Borromeo, Giovanni della Croce e Teresa d’Avila: difficile pensare a un consesso di quel tipo. Del resto le esigenze televisive, che hanno fatto nascere questo progetto, lo hanno reso un po’ commerciale, adatto anche per gli ambienti religiosi meno fini (si era nei primi anni del pontificato di Wojtyla, quello del trionfalismo dell’apparenza), ambienti che comunque escono spiazzati dalle posizioni del frate fiorentino (che il film riproduce con verosimiglianza). Il film mostra in modo anche grossolano il contesto di superstizione tipica della cultura cattolica, effettivamente proclive a mantenere l’ignoranza, specie negli anni dello scalpitare della controriforma: le scene del diavolo, che dovrebbero essere così profonde, appaiono dozzinali.

Per una parte difficilissima, discutibile è la scelta di un attore certo non di primo piano, come Dorelli: il quale comunque ha il merito di mostrare quella gaiezza e quella bonaria semplicità che sono la divisa del suo personaggio. Talvolta bravi i caratteristi attorno. Ottimo Philippe Leroy nel ruolo del fondatore dei Gesuiti, aspro. Ma a svettare, e non stupisce, è Mario Adorf, nelle doppie vesti di frate della provincia marchigiana e di papa.

Splendida l’ambientazione e i costumi della moglie del regista, Lucia Mirisola, come sempre nel sodalizio artistico fra i due. Ottimo l’accompagnamento musicale di Branduardi, per un film che, nonostante la lunghezza (quasi due ore e mezza), è comunque emozionante: anche per l’intreccio amoroso che sembrerebbe inatteso, dato il tema.

 

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