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Salò o le 120 giornate di Sodoma

Regia di Pier Paolo Pasolini vedi scheda film

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La recensione su Salò o le 120 giornate di Sodoma

di ed wood
9 stelle

L'opera ultima di PPP conserva, a 40 anni di distanza, una ferocia e una disperazione quasi insostenibili. E' un film viscerale, corporale, concreto come pochi altri. Non è un "Teorema", non è una trattazione astratta e ideologica (e, forse proprio per questo, debole) della Borghesia e dei suoi mali. E' un film ben poco armonioso, fondato sulla ripetizione e sull'iperbole, sulla fisicità piuttosto che sul simbolismo: per quanto la villa di Salò si presti come una mastodontica e a-storica allegoria del Potere e del suo sfruttamento, non viene mai a mancare (anzi, domina; anzi, è l'unico fattore esistente) la componente fisica e fisiologica, la pulsione bestiale verso i due poli complementari del sesso e della morte. In questo senso, "Salò" è parente stretto e anima nera di un altro film-scandalo di quell'epoca "maledetta", ovvero la "Grande Abbuffata": col film di Ferreri, di un paio d'anni prima, "Salò" condivide la scomposizione del ceto borghese in 4 elementi, nonchè la rilevanza data agli escrementi come prodotto terminale di una società basata sul consumo e sull'immediato appagamento dei bisogni primari e, soprattutto, quella struttura ossessiva, reiterata, debordante, esagerata, senza una vera progressione, men che meno una catarsi (anche se la sopravvivenza della Donna nella "Grande Abbuffata" per lo meno apriva ad una speranza per una nuova civiltà fondata su presupposti diversi). Nonostante la geometrica struttura fondata sul numero 4 (quattro signori, quattro puttane, quattro capitoli etc...) non vi è rigore ideologico o teorico, nè analisi delle modalità di oppressione e delle ipotesi di resistenza. I quattro aguzzini sono figure opache, squallide, meschine, private anche del fascino ambiguo del Male: anonimi e decadenti padroni di vite altrui. Non c'è differenza fra potere politico, economico, giudiziario o religioso. Allo stesso modo, le vittime sono solo giovani corpi violati e straziati, senza che possano in qualche modo organizzarsi in una Rivoluzione: la loro ribellione è confinata nella dimensione della supplica, dell'urlo di dolore, del tentativo di fuga; e anche il pugno chiuso, fieramente opposto ai fascisti sbigottiti da un compagno colto a letto con una serva nera, vale solo come gesto, come segno, come atto disperato e impotente. Nel fosco nichilismo che caratterizza questo film, nemmeno la cultura può venire incontro alle istanze di libertà, fratellanza e giustizia sociale: essa, nella forma dei dialoghi forbiti, delle novelle licenziose raccontante dalle "narratrici", della musica di pianoforte e fisarmonica, degli intermezzi buffoneschi, dei quadri cubisti, diviene piuttosto lo strumento più sottile e letale con cui il Potere si dispiega. Il piacere del racconto evocato nella Trilogia della Vita diventa una tortura e un atto masturbatorio. Eppure, se la musica, la più psicologica delle arti, rivela tuttavia la fragilità di tale Potere (il suicidio della pianista), solo il cinema forse, nella cruda evidenza delle sue immagini, può servire alla causa. Nell'architettare l'escalation delle brutture, Pasolini opera alcuni ribaltamenti che contribuiscono ad esaltare questa idea: nel mostrare i borghesi che mangiano merda e bevono piscia, PPP rivela come l'esercizio del Potere, portato alle estreme conseguenze, degradi ed umili paradossalmente proprio chi lo compie. Il pozzo bunueliano di perversioni "istituzionali" viene inesorabilmente scoperchiato, mentre il culto felliniano delle natiche viene sovvertito e spogliato di ogni sensualità. "Salò" è un film imperfetto, diseguale, non privo di scompensi e passaggi a vuoto: se il primo capitolo scorre via liscio con un montaggio ispiratissimo nel dettare i tempi del rastrellamento e con fugaci inquadrature da mozzare il fiato, in seguito alcuni temi vengono abbozzati e non sviluppati (il matrimonio, la religione) e indubbiamente la letterarietà filosofeggiante di alcuni dialoghi non giova alla compattezza del film. Ma sinceramente questi difetti veniali non intaccano più di tanto la sostanza di un'opera che ha fatto chiarezza sul significato più profondo del "fascismo", che non è certo una cosa confinata al famigerato Ventennio (preso da PPP come sineddoche e nadir della Storia), ma che ha a che fare col concetto innato di "sfruttamento dell'uomo sull'uomo" (ancor prima che su quello di "mercificazione", che qui è sottinteso). Quello che resta il lascito più prezioso di "Salò", al di là delle pecche e delle scorie, è la totale assenza di compiacimento o ambiguità nelle immagini che vediamo. Un pretesto del genere prestava il fianco alla tentazione del cinismo, dell'ironia, del facile sarcasmo (le situazioni triviali e scatologiche, i travestimenti, le barzellette del presidente etc...), così come del voyeurismo (la selezione del miglior culo, le torture osservate col binocolo) o del masochismo: e invece lo sguardo di Pasolini è crudo e radicale, pieno di asciutta e anti-retorica pietas nei confronti delle vittime, che soffrono senza godere (e non come la Rampling del coevo e controverso "Portiere di Notte", ad esempio; e siamo lontani pure dagli eccessi spettacolari del Bertolucci di "Novecento"). In un'epoca come la nostra, di totale mercificazione del corpo, in cui persino i cineasti più sensibili si affacciano ad una visione spregiudicata e problematica del sesso (McQueen, Trier, Ozon e altri), il film-testamento di PPP resta un faro di purezza difficilmente eguagliabile.

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