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Salò o le 120 giornate di Sodoma

Regia di Pier Paolo Pasolini vedi scheda film

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La recensione su Salò o le 120 giornate di Sodoma

di Serum
10 stelle

 

Veniamo subito orientati da una didascalia: siamo negli ultimi mesi della guerra, quando il governo fascista, liquidato dopo l'8 settembre, si era riciclato come repubblica del nord Italia, con l'unico scopo di fungere da cuscinetto per favorire la ritirata tedesca. Forse il momento in cui la follia nazifascista ha brillato della sua luce più oscura: i campi di sterminio al massimo dell'attività, soldati tedeschi impasticcati di mescalina che ammazzano bambini sbattendoli contro i muri e fucilazioni in massa dei dissidenti. Il romanzo del marchese de Sade (scritto mentre si trovava alla Bastiglia, proprio quando fu assaltata dai rivoluzionari...) avrebbe funzionato in qualsiasi epoca, ma Pasolini decide di porlo in quel frangente storico che, ormai per antonomasia, rappresenta l'esercizio del potere nella sua forma più indiscriminata, platonicamente anarchica e spudoratamente menefreghista nei riguardi della vita umana (dei circa sessanta milioni di morti della Seconda Guerra Mondiale, cinque sesti erano civili). Non per nulla l'azione si svolge a Marzabotto: paese il cui nome è ricordato dai più esclusivamente per essere stato teatro di uno dei più cruenti massacri del passaggio tedesco in Italia. Il vero protagonista è proprio il Potere, privo di qualsiasi inibizione o cautela sociale, declinato nelle sue quattro forme principali, cui corrispondono equivalenti tratti fisici e comportamentali: il Duca per il potere politico, imponente e brutale, di un carisma irresistibile quanto terrificante; il Monsignore per il potere religioso, dispensatore di citazioni, indolente, ma capace di animarsi d'ira da sermone apocalittico; l'Eccellenza per il giudiziario, rapace, gaudente nel far calare la mannaia sul malcapitato di turno; il Presidente per l'economico, viscido, apparentemente amichevole, ma in realtà allucinato e d'imponderabile perversione. Dopo un Antinferno in cui si procacciano carne fresca da immolare alla propria brama e dove vengono esposte brevi regole di annullamento individuale, ci si immerge nell'abisso che porta alla Giudecca. Pasolini distilla De Sade con Dante, ristrutturando Le 120 giornate di Sodoma col piano architettonico del cerchio dei violenti: tre gironi costituenti altrettante raccolte tematiche, ognuno accompagnato da una diversa composizione per pianoforte, che passano in rassegna ogni possibile parafilia basata sulla sopraffazione altrui. Vengono creati degli straordinari quadri di orrore inenarrabile (eppure splendidamente raccontato dalle megere imbellettate), talmente carichi di significato ed esteticamente risolti da piantarsi nel sistema nervoso come un proiettile: il matrimonio satanico cui segue il banchetto a base di deiezioni, il branco di "cani", il giovane repubblichino che alza il pugno (come una statua greca d'ispirazione marxista) dopo aver fatto sesso con la ragazza nera, il "concorso per il miglior deretano", l'orgia di sangue nel cortile sulle note del Primo Vere di Carmina Burana, momenti omoerotici (sia maschili che femminili) ripresi con una naturalezza che fa invidia al cinema moderno, Sul ponte di Perati cantata in coro durante la sodomia, il filosofeggiare dei torturatori sullo sfondo dell'arte futurista. Un corollario sterminato di momenti emblematici che penetrano come una lenta stilettata che taglia tessuti, dove gli unici a non accettare la perdita di qualsiasi empatia o trovano conforto nel suicidio o finiscono fatti a pezzi. Salò non è un film: è un'esperienza di dolore fisico e psicologico, che attrae e repelle al contempo, una discesa in quell'Ade che è il lato oscuro dell'homo sapiens liberato da qualsiasi freno etico (eppure costantemente ispirato da una fascinosa etica della malvagità), che si sublima costituendo la più potente allegoria del Potere della storia del cinema. Pasolini sprofonda insieme allo spettatore come un Virgilio che non arriverà mai a riveder le stelle ed incontrare Catone (non esiste redenzione, solo una silenziosa avanzata verso il disfacimento), porta all'estremo il gioco morale confondendo le carte (alcune delle vittime passano dalla parte dei carnefici, godendo insieme a loro della sofferenza degli ex compagni di sventura) e crea un'opera che trabocca morte da ogni fotogramma, il perfetto (per quanto tristemente involontario...) canto di un cigno destinato al macello (come il corvo di Uccellacci e uccellini...), sintesi di decenni di analisi antropologica e politica, di una potenza espressiva inarrivabile, che ancora oggi mina le fondamenta della coscienza di chi vi assiste.

 

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