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Chi lavora è perduto

Regia di Tinto Brass vedi scheda film

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La recensione su Chi lavora è perduto

di CristianoSalmaso
7 stelle

Il noto Tinto nel suo esordio "franco veneziano"

Regista noto a chiunque per i suoi fim erotici che a partire dagli anni '80 hanno stuzzicato pubblico e critica, Tinto Brass esordì però con una pellicola intitolata Chi lavora è perduto (originariamente In capo al mondo) che mescolava ambizioni e ascendenti letterari alla sua ironia, o meglio a quella sfacciataggine che avrebbe preso il sopravvento nella sua carriera, quando abbandonò quel cinema che lui stesso definiva “serioso”. Ma per fare del cinema impegnato aveva tutte le carte in regola, grazie alla sua sensibilità, all'esperienza parigina, alle buone letture; perchè c'è davvero tanta letteratura in questa pellicola, a partire dal monologo interiore del protagonista, dal quale si potrebbe ricavare quel (buon) libro che Brass ha scelto di filmare anziché scrivere.

Bonifacio è un giovane appena diplomato che arriva a Venezia per trovarsi un impiego: al colloquio con lo psicanalista, che lo subissa di domande, la reazione è quella di voltare le spalle al lavoro e ad andarsene a spasso; inizia così un giro per un'assolata Venezia - che confonde i confini tra realtà e sogno, tra presente e passato – lanciandosi in una lunga chiacchierata con se stesso tra riflessioni ed esclamazioni, dubbi e proverbi, malinconie e stupidaggini (l'Ulisse di Joyce da noi era appena arrivato).

Facendo tesoro delle sue prime esperienze nel mondo del cinema, Tinto Brass gira una pellicola unica e preziosa, in equilibrio tra il neorealismo nostrano e la nouvelle vague francese; del primo ha il tema del bisogno, il tragicomico, la parlata (un dialetto veneto efficace ma difficile da seguire), della seconda ha la flânerie, lo snobismo, la verbosità. Un'amore per la nouvelle vague che passa dall'esplicito omaggio a Godard (con una inquadratura del manifesto di Vivre sa vie) al tocco francese di tutto il film, che ha quella grazia del primo Truffaut de I 400 colpi. Ecco allora i ricordi dell'infanzia soccorrere Bonifacio con la loro aria di libertà e leggerezza ma anche con i timori verso la Chiesa, con un prete che allora lo accarezzava un po' troppo e che adesso immagina di buttare nel Canal Grande con un calcio nel sedere. Scherza su tutto Tinto Brass, soprattutto sulle cose serie: sulla Chiesa, su Dio, sul lavoro, sul fascismo, sulla psicanalisi, sui manicomi, sui tabù sessuali, sulle gravidanze indesiderate, sulla morte; fustigatore impertinente del costume e della morale dell'epoca, che è quella di un' Italia ancora arretrata ma in pieno boom economico, Brass mette in scena un fannullone che continua a vedere la vita come un gioco: “Se prendo quel motoscafo, trovo lavoro!”. Continuando a vagare tra la gente e i suoi ricordi, Bonifacio fa visita ad un amico in manicomio e poi arriva sulla spiaggia del lido, dove la solitudine ed il desiderio gli riportano alla mente la sua storia con Gabriella, finita con un'aborto in una clinica svizzera. “Anche l'amore va e viene, come i vaporetti”, ma Tinto Brass non concede tempo all'amarezza, spingendo il suo Bonifacio in piazza San Marco ad alzare una sottana o a spiare una donna con il monocolo; eccola la verve erotica dell'uomo che amava le donne e ne spiava le gambe al cimitero o sognava di vivere aprendo un “casotto”. E dopo essersi immaginato attore, falsario e gondoliere, al povero Bonifacio non resterà che fare il portamangime per i piccioni, perchè tanto “essere o non essere boh vattelapesca è solo questione di abitudine e allora su con la vita!”. Si finisce un po' come in Europa '51 (Brass era stato assistente di Rossellini), con una riflessione sulla maledizione del lavoro, che “rende liberi”; ma si torna subito a prenderla in burla, con Bonifacio che scherza proprio con Dio sulla condanna a lavorare.

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