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La vergine dei sicari

Regia di Barbet Schroeder vedi scheda film

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La recensione su La vergine dei sicari

di kotrab
8 stelle

Più che sconvolgente, La vergine dei sicari (1999), tratto dal libro autobiografico di Fernando Vallejo, è un film sconcertante, è un'opera che ti sbatte in faccia un mondo e una società dominati dalla violenza e dalla giustizia privata. o meglio una catena senza fine di vendette sia di maggior spessore che del tutto futili.
Il protagonista è appunto lo stesso scrittore (il bravo G. Jaramillo) che torna dopo trent'anni nella sua Medellin, in Colombia, per ereditare l'appartamento della sorella. La città è diventata un coacervo di follia omicida, una capitale dei narcotrafficanti dove si sparano fuochi d'artificio quando un carico di droga approda negli Stati Uniti, un cimitero a cielo aperto dove ci si raccomanda, inascoltati ovviamente, di "non gettare cadaveri" nelle scarpate. I quartieri si fanno lotta in pieno giorno e in ogni luogo, la morte è così ovvia che si uccide anche per un'offesa, come per scacciare una mosca fastidiosa. Fernando dapprima è sorpreso e spiazzato e scopre tutto questo soprattutto attraverso la relazione col giovane e acerbo Alexis (A. Ballesteros), un ragazzo dagli occhi dolci, sereno, gioviale, dalla parlata flemmatica e sensuale per il quale è del tutto naturale, appunto, ammazzare a sangue freddo se qualcuno lo disturba, perché è quasi come una specie di gioco che si mischia all'istinto di sopravvivenza (in effetti è continuamente braccato da sicari in motocicletta).
B. Schroeder e Vallejo prendono di petto la materia scottante, esasperano senza filtri l'asprezza della vita che ritraggono, ma che è un'asprezza che ha in sé un'innocenza, un'ingenuità (perlomeno nei confronti della giovinezza, costretta a formarsi in un modo di vivere come questo), e credo sia questo il messaggio del film (non posso fare riferimenti al libro, dato che non lo conosco), ossia dimostrare di petto che certi comportamenti non sono dovuti soltanto ed esclusivamente al carattere di una persona, ma possono anche essere causati da un'abitudine, una consuetudine, una necessità. Questo è riferito sia ai modi spicci e brutali sia alla natura omosessuale dei personaggi in questione, lontani dagli stereotipi del gay innocuo e politicamente corretto e che vuole spazzare via una visione generale passiva senza però rifomentare accuse negative, ma restituirne la concretezza e la pluralità di manifestazioni, la molteplicità fenomenica. Ciò è in linea proprio con lo stile di Schroeder, misto di documentario, immediatezza e finzione, spaccato di vita e simbologia visionaria, nichilismo, religione istituzionale e superstizione, generi cinematografici (le apparizioni dei killer, gli onirismi a occhi aperti), tutto ripreso in un video digitale che non ha sciattezza approssimativa ma rende bene come catalizzatore tra i variegati stimoli visivi. Il tragico contenuto è poi strutturato come una specie di viaggio non solo interiore di Fernando in preda alla voglia di morire, poi di rivivere grazie all'amore, poi ancora alla caduta nell'abisso dell'abitudine alla morte circostante, ma anche esterno, nella città vista come un inferno dantesco, dove Fernando/Dante è accompagnato dal "Virgilio" Alexis, il primo però più saggio del secondo e che poi però si lascia insegnare dal nuovo modo di vivere/morire. Anche il personaggio dell'informatore, detto Ragazzo Morto (Jorge A. Correa) per il suo aspetto cadaverico e gli occhi svaniti, ha appunto le sembianze di un messaggero o di un traghettatore dell'oltretomba che in una scena appare addirittura dal nulla.
La visione cinica e drammatica di un mondo dove gli avvenimenti si ripetono analoghi e senza via d'uscita (la nuova relazione con Wilmar [Juan David Restrepo]), fortemente accusatoria, scettica nei confronti delle credenze religiose e pure offensiva (anche se trasmette un modo di pensare alternativo un po' limitato e semplicistico) , non è però gratuita e soprattutto è sostenuta da dialoghi diretti e freschi e da un'ironia persino umoristica per gran parte del film, stranamente non percepita da molti detrattori e che al contrario mi sembra molto evidente e riuscita senza che per questo vengano soffocati i necessari e ben calibrati momenti di tenerezza o di malessere dello spettatore, più che di Fernando, ormai così abituato ai tragici fatti della vita che pare sentire più dispiacere che dolore. Oppure è una capacità logorata e in via di estinzione del sentire dolore, come la malinconia discreta e sullo sfondo della sporadica musica di Jorge Arriagada che si scontra con l'apparente allegria di certe canzoni? Le risposte possono essere ancora una volta numerose e spesso complesse, come nella attrazione/repulsione verso le chiese e la presenza/assenza della Chiesa stessa nella coscienza popolare. 8 1/2

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