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Space Cowboys

Regia di Clint Eastwood vedi scheda film

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La recensione su Space Cowboys

di FilmTv Rivista
8 stelle

Hollywood riscrive il “De Senectute”, pensando ai suoi grandi attori invecchiati, e lo lancia nello spazio. Rottami volanti della Guerra Fredda, ricordi in bianco e nero, rughe, lunghe e profonde come la vita, che tendono verso terra attratte, inevitabilmente, dall’implacabile forza di gravità biologica, passi lenti e resi sbilenchi dal reuma, vista affievolita. La Luna, nonostante le canzoni di Frank Sinatra e le poesie, è lassù. È l’ultima frontiera da conquistare per chi ha ormai intorno ai settanta anni. Verso il West o nel buio maestoso del cielo gli essere umani restano soli con i loro sogni. Frank, Hawk, Jerry e Tank aspettano per quaranta anni il loro battesimo nello spazio e sarà una prima volta da eroi Old Fashion. Ironia, coraggio, insofferenza per le gerarchie e per il potere, capacità di decidere in fretta e di sacrificarsi senza enfasi. La nascita della Nasa, nel 1958, esclude quattro brillanti e scapestrati piloti collaudatori del team Dedalus dai nuovi programmi spaziali. Ma il tempo non è mai perduto. L’appuntamento con il destino (l’avaria di un satellite russo, Ikon, e la necessità di mettere di nuovo insieme una squadra esperta per imbrigliarlo e rimetterlo nella corretta orbita geostazionaria) li trova alle prese con le inezie del presente: una predica in una chiesa battista, la porta di un garage da installare, la verifica di un ottovolante o il volo acrobatico per un giovanotto debole di stomaco. Occhiali neri, giubbotti, stivali, battuta sempre pronta, gli “anzianauti” superano l’addestramento accelerato, finiscono sulle prime pagine dei quotidiani e nei talkshow più seguiti d’America: sono pronti per l’infinito. Clint Eastwood dirige con mano leggera e affettuosa, gioca di sponda con gli altri tre straordinari interpreti, svisa su un solido modello di classicità e di compostezza narrativa. Il racconto, la messa in scena, i personaggi contraddicono i vezzi, le mode e le debolezze del cinema contemporaneo in cui ritmi, colori, slang e riferimenti hanno la concitazione di sistemi nervosi non offesi dal tempo. Il suo è un cinema che non ha bisogno di metabolizzare videogame, o pubblicità. È più interessante e tenero il metabolismo di chi ha vissuto a lungo e non si fa troppe domande sul futuro. La struggente “Fly Me to the Moon” vale almeno cento rap e un “mature movie” può avere la stessa freschezza di un “teen movie”.

 

Recensione pubblicata su FilmTV numero 38 del 2000

Autore: Enrico Magrelli

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