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Dillinger è morto

Regia di Marco Ferreri vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Dillinger è morto

di spopola
10 stelle

Capolavoro assoluto dell’intera filmografia di un regista “fuori norma”  come Ferreri (la definizione non è mia ma di Fernaldo di Giammatteo e Cristina Bragaglia – Dizionario dei capolavori del cinema – Bruno Mondadori Editore) che di “grandi” film ne ha fatti davvero tanti, Dillinger è morto è una pellicola importante e anomala (anche rispetto alla produzione degli anni in cui è stato concepito e realizzato) a partire dalla misteriosità del titolo che ben identifica questo “non” racconto elusivo, zeppo di riferimenti in cifra e di sottintesi, e dove in pratica anche se ci sono tante cose dentro, non accade quasi nulla, e per paradosso, nulla si muove se non la cinepresa che con il suo occhio implacabile viviseziona spazi, oggetti e personaggi.

Per la verità l’idea iniziale del regista era quella di intitolare questo racconto singolare vuoto di eventi ma rigoroso come un meccanismo ad orologeria, Processo di addizione, e il perché di questo titolo si può meglio comprendere dalle stesse parole di Ferreri che così lo raccontava: “Noi viviamo come il protagonista del mio film, a contatto con gli oggetti. La nostra vita è una sorta di museo di oggetti inutili. La nevrosi si esprime soprattutto  come feticismo dell’oggetto, intendendo con ciò non le mere cose inanimate ma anche i mezzi di informazione e comunicazione quali i dischi, i giornali e la TV. Un giorno il mio personaggio fa un atto di discriminazione e ferma la sua attenzione su uno di questi campionari del museo: una pistola. Lo attrae soprattutto il carattere preistorico da antiquario, di quell’arma. Da qui, ha inizio il processo di addizione che finisce appunto con l’uccisione della moglie (il simbolo vistoso del suo status di prigioniero di un mondo confortevolmente alienante). Meglio diventare allora cuoco-schiavo su un veliero che va in Oriente: per lo meno rimane la possibilità di sognare”.
Ma come spesso accade quando l’idea grezza si materializza nel corso della sua realizzazione e si confronta col girato, si può rimanere fulminati da un dettaglio che si radicalizza e fa cambiare idea, anche se di fatto ha solo un indiretto rapporto con la storia, ma è così calzante da rappresentarla molto meglio di ogni altra ipotesi elaborata in precedenza, fino ad assumere il senso di una illuminante parafrasi da difendere a spada tratta e fino in fondo anche correndo il rischio di non essere compresi o di essere accusati di “ermetismo cervellotico”. Diventa infatti qui un vero e proprio colpo di genio, allusivo e dissacrante: un’astruseria a suo modo poetica che annulla ogni possibile sospetto di didascalismo che la precedente “scelta” (per fortuna scartata) e le stesse parole del regista potevano far immaginare (e portare fuori strada lo spettatore) di fronte a una pellicola che didascalica non lo è di certo (Ferreri non lo è mai stato) e che si esprime e si racconta soprattutto attraverso le immagini (e che immagini!), gli spostamenti della cinepresa in costante movimento sopra impercettibili carrelli che tamponano il protagonista e lo stringono in una morsa che non gli consente alcuna via d’uscita oltre quella che alla fine adotta, gli avvolgenti piani-sequenza, le panoramiche combinate (Maurizio Grande), gli oggetti che invadono lo spazio,  scandiscono il tempo della rappresentazione e si fanno film, o per dirla ancora meglio, diventano la materia pulsante che compone il film.

Di fatto, Dillinger è morto, è qui semplicemente il titolo letto sulle pagine di alcuni vecchi giornali (il Chicago Tribune e il Messaggero)  risalenti al 1934 – appunto l’anno in cui fu ucciso il famoso gangster americano -  che avvolgono una rivoltella altrettanto antica (quella sì, centrale nel racconto).

 

 

Potrebbe essere ancora scambiato da qualcuno come un improprio e sterile esercizio di stile fine a se stesso (o addirittura frainteso) questo notturno happening sulla nevrosi alienata dell’uomo moderno generata dall’orrore del quotidiano, come in effetti accadde al momento della sua uscita in sala perchè non tutti ne vollero cogliere il valore, e se da una parte fu glorificato (Leo Pestelli lo definì uno straordinario, disturbante, ampio e composito “adagio gastronomico”) dall’altra qualcuno invece si irritò parecchio di fronte al suo presunto divagare “senza senso” (Natalia Ginsburg, tanto per fare un esempio eccellente – ottima scrittrice, ma evidentemente incompetente cinematograficamente parlando, e soprattutto  “di parte”, essendo una che in virtù del suo mestiere, forse anche nel cinema avvertiva un bisogno assoluto di parole che per Ferreri erano invece solo un accessorio secondario. Sta di fatto, che la sua fu una stroncatura senza appello che bollò l’opera definendola una insopportabile concentrazione di tedio in cui i pochi personaggi che vi appaiono “sono lo specchio di una condizione umana dove i valori sono andati perduti”, e con loro, si è smarrito anche il senso ultimo di un procedimento narrativo che - banalmente  - sembra essere finalizzato ad esprimere soprattutto il “disprezzo per la specie umana” e a farlo diventare un inaccettabile dogma).

In pratica la scrittrice (ma non fu la sola) addebitava a Ferreri e al suo pessimismo cosmico l’errore clamoroso di aver messo in scena un  processo di svuotamento di dubbia origine, disconoscendo così il valore esistenziale della sua opera e senza minimamente considerare che si trattava invece della  rappresentazione realisticamente consapevole del vivere (o per meglio dire del mal de vivre)dell’individuo nella società reificata a cui quest’uomo a una dimensione, senza più slanci né certezze, abulicamente assorbito dagli ingranaggi del sistema e a suo modo integrato (specchio di un’umanità asservita al consumismo degli oggetti), prova a dare un senso al “nulla della sua esistenza (forse perchè è davvero arrivato al capolinea) aggirandosi per casa in una serata di accidia e di insonnia vinto dalla noia e dall’indifferenza. Quello che realizza il regista, è insomma un magistrale processo di “astrazione simbologica” costruito su una serie di atti solo apparentemente inutili e occasionali che quasi di soppiatto introducono “casualmente” (il virgolettato è d’obbligo perché nel film di “casuale” non  c’è proprio nulla) il crimine e la violenza del mondo dentro lo spazio angusto di un appartamento racchiuso fra la cucina e la camera da letto, un piccolo microcosmo che gli consente di portare questa rivolta anarchica molto strutturata, a confrontarsi direttamente (e il dibattito suggerito dalle immagini è dialetticamente illuminante) con il condizionamento alienante degli elettrodomestici e di tutti gli altri oggetti di consumo “distruggendone” sistematicamente il senso per metterne in luce la loro superflua accessorietà. Dillinger è morto, appunto. Ed è proprio questa la calzante metafora che permette al regista di voltare le spalle alla storia e uscire dallo sconquasso ideologico del Sessantotto e dalle false illusioni di quegli anni per proiettarsi nel futuro privo di scorie ideologiche e di condizionamenti mentali.

 

 

Parlavo prima di un consapevole processo di astrazione (anche politico) e confermo in toto questa definizione: il suo crudele apologo – lo ribadisco volentieri -  travalica infatti le epoche e le ideologie: costruito privilegiando i silenzi per far parlare al posto delle inutili parole (qui sporadiche e  marginali) i corpi e gli oggetti, fino a farli diventare spietati testimoni di un percorso che inevitabilmente porta alla morte e alla dissoluzione. La straordinarietà del risultato sta poi nel constatare che Ferreri anziché partire dai fatti per arrivare a delle conclusioni, fa il percorso inverso, e quindi parte dalle conclusioni (o meglio ancora, le utilizza) per arrivare ai fatti. Nel  suo film non c’è in effetti nulla da dimostrare: non è un teorema, ma un riscontro oggettivo dove tutto è chiaro e lampante (per chi sa osservare), già prima che ogni cosa venga resa esplicita dal gesto e dal movimento (l’inane vagabondare per le stanze della casa di questo anonimo borghese reso con prodigiosa  e sfaccettata sottigliezza di interprete da un Michel Piccoli di stratosferica grandezza, disponibile per ogni genere di regressione, costruttore per lavoro di maschere atte a difendersi dai gas venefici, che si è “fabbricato” per sé una maschera da impassibile osservatore, altrettanto utile per sopravvivere.

Dillinger è dunque nei fatti un rigoroso concentrato di elementi resi esasperanti e portati al parossismo attraverso i quali il regista ci dà la sua fosca rappresentazione del mondo partendo da una posizione già definitiva che non necessita né di sviluppi, né tantomeno di commenti esplicativi (per quel che riguarda  il significato) ma ha bisogno soltanto di una meticolosa, impegnata  compartecipazione, che stimola, “attenzionando” lo spettatore sull’importanza dei dettagli (è appunto a questa specie di “complicità indotta” che l’autore mira mostrandoci la ricostruzione accurata della rivoltella che poi tinge di rosso - ma a pois – che, come ho già accennato prima, è l’elemento essenziale e l’anima stessa del film.

Si potrebbe dire allora che questa volta il regista vive all’interno dei sintomi della terribile malattia che ci descrive e nutre lo spettatore con la loro rarefatta filtrazione per renderlo edotto su quella che è la reale situazione in cui si trova a vivere ed agire (i mali e le défaillances del mondo e della società). Ferreri sembra insomma essere qui soprattutto in posizione dialettica con le  immagini (le sue stesse immagini) che sono il giusto mezzo per rapportarsi “criticamente” con la realtà che lo disturba). Utilizza per questo, le sue stesse fibrillazioni esistenziali (e le conseguenti ossessioni personali, prima fra tutte quella che riguarda l’irriverente, provocatoria metafora culinaria  a cui è ricorso direttamente o indirettamente pure in molte altre opere del suo percorso artistico: non solo La grande abbuffata, ma anche La carne e Come sono buoni i bianchi!)., con una singolare dualità di contenuto interconnettivo quasi kafkiano.

Nevrosi, dunque, come regressione consapevole, in opposizione al senso del tempo, ma anche disperazione e smarrimento, per arrivare poi ad avere, al termine di questa impietosa esplorazione “dell’assurdo vivere”, la definitiva conferma dell’amorfa e piatta oppressione del tessuto sociale, della totale caduta di senso, della sconnessione di un gestire  senza presa sul reale, dell’impotenza totale, insomma (Gianni Volpi).

Questo è un apologo davvero impeccabile, nel quale Ferreri e la sua consueta misoginia , non sbaglia un colpo, un’opera di eccezionale eleganza formale e di altrettanta “inquietante” (e insolita) tensione (o, come lo ha definito Tullio Kezich, un estenuante assolo che si propone come l’elegia dell’individualismo annullato dalla società di massa”) attraverso la quale il regista sembra invocare quasi un gesto estremo di violenza (“bisogna sparare per vivere!” sono le parole che pronunciò a suo tempo in risposta agli attacchi di molti denigratori - ed è anche questo un altro dei suoi provocatori paradossi) per uscire dalla palude di un mondo ormai  condannato dentro al quale ci siamo tutti  “accomodati” opponendo soltanto piccole sacche di scarsa e insufficiente resistenza.

 

Sinossi  (Attenzione: SPOILER)

 

Il protagonista della storia (un Michel Piccoli al suo meglio) è un industrial designer che opera nel settore delle maschere antigas. Nel tornare a casa al termine del lavoro giornaliero, cerca di evitare un collega pedante (a parole ovviamente, fra le poco pronunciate in tutta la pellicola: e quelle che gli fa usare il regista - autore anche della sceneggiatura - contro il mondo alienante  degli oggetti, non a caso sono quelle scritte da Umberto Eco).

A casa però trova la cena fredda (non di suo gradimento) e la moglie (una splendida Anita Pallenberg) con l’emicrania, annebbiata dal sonno e dal caldo afoso dell’estate.

Mentre è intento a prepararsi una succulenta ed elaborata ricetta gastronomica che gli possa fornire maggiore appagamento, nel cercare una salsa per la carne, è attratto da un titolo che appare sull’involucro di un pacchetto scoperto per caso, fatto di vecchie pagine di giornali del 1934 che riportano in bella evidenza e a caratteri cubitali, la notizia dell’uccisione del famoso e temuto gangster americano Dillinger. Dentro al pacchetto c’è una rivoltella a tamburo arrugginita.

L’uomo mentre attende che le pietanze siano cotte, si sofferma a leggere le pagine di quel vecchio giornale mentre comincia a smontare, pulire e oliare i pezzi della rivoltella dentro l’insalatiera calmo,  placido e con fare indifferente, come se si trattasse della cosa più normale di questo mondo.

Forse però la rivoltella, tangibile e vera come quella cenetta solitaria, ricordo di come si cucinava una volta, qualcosa ha smosso dentro di lui, ma nulla ci viene fatto palesare nell’immediato non solo su cosa, ma anche sul perché. La serata dell’uomo infatti  continua monotona così come era cominciata, con la cinepresa che ne segue i movimenti e le azioni, alcune sciocche e altre invece più significative e lo riprende mentre si muove lento per le stanze, guarda la televisione che trasmette scemenze, proietta sul muro i filmini, ricordo di un recente viaggio fatto con la moglie in Spagna (una corrida,  un’isola piena di belle ragazze sorridenti) e imita sulle immagini i gesti che immortalano quei giorni, degusta in giardino un cocomero al rhum sottratto al frigorifero e finisce addirittura – mentre la moglie dorme supina, il corpo nudo in bella mostra  che non risponde alle sue sollecitazioni – per intrufolarsi nella stanza della viziosa cameriera (la bravissima Annie Girardot).

Vive insomma quelle ore di insonnia, proiettandoci dentro il ricordo dell’abitudine come se fosse un gioco sempre più macabro e quasi rituale che coinvolge oggetti e sequenze visive falsamente liberatorie ed appaganti.

Riprende poi la pistola ormai rimontata e resa di nuovo funzionante, la dipinge di rosso a pallini bianchi, finge di sparare prima agli oggetti e poi anche a se stesso (mimando l’azione davanti allo specchio della camera da letto). Fa poi passare un serpentello di gomma fra le gambe della moglie  ancora addormentata, poi con la stessa indifferenza, le mette un cuscino sulla testa e spara tre colpi uccidendola.

Da un cassetto, prende i gioielli ed esce. Con  la macchina raggiunge il mare. Vede un veliero in sosta e  dalla grotta di Byron, si tuffa per raggiungerlo a nuoto. La nave (la cui padrona-capitano è di una bellezza prorompente) è diretta a Tahiti. Si fa allora assumere come cuoco dopo averle consegnato i gioielli, e mentre il veliero salpa per arrivare a quella meta lontana, il cielo si tinge di un rosso accesamente romantico simile a quello con cui era stata dipinta la pistola, perfetta e altrettanto paradossale conclusione “divagante” aperta al altrettante  e non del tutto univoche interpretazioni, visto che nella pellicola di sottotesti possibili ce ne sono tantissimi, e tutti assolutamente percorribili e pertinenti. 

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