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Lancillotto e Ginevra

Regia di Robert Bresson vedi scheda film

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La recensione su Lancillotto e Ginevra

di EightAndHalf
8 stelle

La composizione delle immagini di Lancelot du lac così come degli altri film di Bresson, con i movimenti di cinepresa, i suoi stacchi frenetici e il suo montaggio talvolta svelto talvolta quieto, oltre ad essere entrata di diritto (e dal basso, senza sviolinare né spettacolarizzare) nella storia della Settima Arte, è carica della stessa feconda matrice della casualità. Ogni evento, ogni gesto, ogni situazione, è astratta da se stessa e dalla sua causa, e divenuta pura cinematica, si realizza in quanto concausa di qualcos’altro, di un susseguirsi diverso di fattori, fuori dalla concretezza o trascendenti da essa per mostrare qualcos’altro, di nuovo. L’occhio di Bresson si confonde con i vuoti, i bui, i clangori delle armature, con i volti che raramente inquadra da vicino, con i corpi dei suoi personaggi, e sembra addentrarsi nell’essenza delle cose con l’apparente apatia di chi è completamente disinteressato al realismo, ma vuole trovare l’unicità e l’irripetibilità dei contesti, benché afflitto da una constatazione che più tragica non si potrebbe: il germe dell’irrazionalità collega tutti gli esseri umani nella Storia (e nell’Epica). La contestualizzazione cavalleresca diventa funzionale per questo evacuare dalla realtà irrisoria dei nostri occhi e accedere ad una realtà che fluisce oscura, intangibile e imperscrutabile, nonostante chi guardi sia a conoscenza, eventualmente, del procedere degli eventi. Ad essere imprevedibili sono i gesti, i sguardi, le pulsioni: sono quelli ad essere diventati di primaria importanza.

 

 

Lancelot du lac dunque non risulta fuori luogo nella filmografia bressoniana, né risente dell’attenzione (accurata ma non certo patinata) ai costumi, al linguaggio e alle maniere del tempo raccontato: la stessa produzione cavalleresca utilizzava le sue storie come maniera per raccontare e far sbalzare in primo piano i valori morali (autodistruttivi) che spingono gli uomini, a posteriori, verso una catastrofica autodissoluzione (anche se certo erano rappresentati con ben altri obbiettivi: Bresson, in questo, stravolge tutto il senso). Ed è curioso come Bresson faccia parlare anche la sua sceneggiatura, per farle pronunciare una voce ultima sul carattere superstizioso delle sovrastrutture umane, che, insieme alle divinizzazioni e alle idealizzazioni dei sentimenti umani, qui vengono scacciate per raccontare la storia di un uomo e una donna, del loro tradimento, e del sangue che per questo o per altro viene versato copiosamente. Un mondo inane, quello di Lancelot du lac, deflagrato in se stesso in quanto congelato dai suoi stessi inerti girotondi di orgoglio e presunzione. Eppure a Bresson non interessa la tesi dell’assurdità che lega gli esseri umani, o, almeno, simile affermazione (che poi, come già detto, è una oggettiva constatazione derivabile da qualsiasi racconto) viene catalizzata e assorbita direttamente dallo stile, freddo, distante, deciso a non prendere posizione, attento alle forme, attento a mostrare i movimenti vivendo l’attimo. La spada che si muove e che andrà a tagliare una testa; le zampe dei cavalli che trottano o corrono verso l’obbiettivo della lancia; gli stendardi dei cavalieri che vengono issati con musica diegetica medievale; il bambino che stringe un mucchio di legni con un lungo spago; il corpo di Ginevra che viene vestito dalle ancelle.

 

 

Di certo non si riesce mai a dirsi pronti di fronte a una simile scarnificazione del gesto filmico; difficilmente si potrà non essere ammutoliti di fronte alla schiettezza con cui l’immagine di tanti cadaveri cigolanti si ammassano sul terreno della foresta dove è stata ordita una trappola. Non sarà finita una storia, si starà solo osservando un gruppo di macerie. Che si riduca a questo tutto quanto, in fondo? O magari che questo tutto quanto non esista proprio?

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