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Lancillotto e Ginevra

Regia di Robert Bresson vedi scheda film

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La recensione su Lancillotto e Ginevra

di lorenzodg
10 stelle

    “Lancillotto e Ginevra “ (Lancelot du Lac, 1974) è il terz’ultimo film del cineasta francese Robert Bresson.     Già oltre i settanta anni il regista conia il suo stile di commiato e di fervore interiore della settima arte come meglio ha saputo e come maggiormente seppe fare. Un cromatismo imbrunito, incattivito dove alla storia esteriore (evidente e di marca superiore) si antepone e sostituisce il ricamo dell’io battagliero.

    Un’epopea medievale, un ricamo (meta)storico e un rabbuiato mondo di millennio in millennio: la vera metafora dell’uomo e del suo potere. La vigliaccheria dell’amicizia l’inganno molesto dietro al servizio velo di sempre. L’uomo fedele che si ridesta da stesso e si inebria della propria viltà per lenire il proprio sguardo fa proprio quello del suo amato padrone. Fiducia incontaminata quella di Re Artù verso il proprio (unico) cavaliere. Ma non è mai domo per perdere la speranza sua e quella degli altri.

    Il mito della tavola rotonda o di quello che si rimarca ogni volta che ne leggiamo e ne vediamo, in Bresson raggiunge la punta di diamante oscura, acerba e, forse ignava della propria edulcorazione da filo rosso, l’excaliburizzazione sfumata e stanca. Un uomo rivestito e vestito di protezioni metalliche dove l’arma dell’io personale si ridesta e ricolma la natura circostante. Un vomito di nefandezze e di spirali di morte: la morte di vita dove lo spirito interiore fuoriesce da tutti e si cela dietro un’armatura dignitosa ma pesante e solo fardello per un corpo inutile con maestre vie di intelletto stanco. La vita e la morte, la speranza e l’oblio, la grazia e il peccato si scontrano non in un poema (immaginario) epico, ma in un encomio stanco corpo a corpo invisibile e in un triste voluttuario funereo. La cinematografia bressioniana cerca di ergersi in dignità umana nelle sue pochezze onorarie dilaniando, con forza silenziosa, un mito e il suo opposto per differenziarlo dal nulla eccelso. Un mito di parole perde coraggio con un mito di soli assurdi silenzi. L’uomo solo con stesso, crede di raccontarsi (bene) ma si autodistrugge nel buio di campo (male) nel bosco (di una battaglia finale). Non c’è agonia, non c’è massacro, non c’è barlume, c’è solo una caduta metallica in un silenzio metabolizzante e in ascetismo spettrale, dentro la maschera, nascosta.

    Il passaggio delle ombre e delle maschere dietro ai rami degli alberi di un bosco sento e spaurito ricalca e ne amplia (sotto certi aspetti) il dogma cromatico del maestro nipponico Kurosawa. La carrellata dei personaggi coperti e non visibili dietro quello che si vorrebbe vedere e marchiare dentro il nostro sguardo rappresenta l’encomio finale e funereo di schermi affievoliti, di piattezze scheletriche e di rombi ignavi di armature (metallicamente oleose) stridenti e fumose.

    Il tetro teatro della battaglia s’accascia morente in inquadrature ferree, segnate, incamerate, rigide dove il sonoro (esterno) annulla e dispone il linguaggio (interno). Tutto è nascosto da grovigli di metalli e da assurdi voci annullate da stridenti armamenti e da nature appagate. La sfilata di maschere ridà ordine dietro un cumulo di morti sovrapposte.

    Grande epurazione del film classico, grande spurio del linguaggio, grande ardimento introspettivo. Il cast di ogni film di Bresson è peculiare alla causa (mai si osservano personaggi casuali e buttati lì nella mischia di un’inquadratura sempre utile).

    Da ricordare la bellissima fotografia di Pasqualino De Santis (compianto direttore della fotografia di innumerevoli capolavori).

    Regia di Bresson: impressiona la padronanza dello schema narrativo, passo dopo passo, la cinepresa ti segue dentro.

    Voto: 9 (difficile valutazione ma oso dare una votazione).

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