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Ghost Dog. Il codice del samurai

Regia di Jim Jarmusch vedi scheda film

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La recensione su Ghost Dog. Il codice del samurai

di champagne1
7 stelle

Le decisioni importanti vanno prese nello spazio di sette respiri.

Assoldato dalla Mafia per un lavoretto senza errori, un sicario a pagamento (che si fa versare i proventi dei suoi incarichi solo il primo giorno di autunno) vede qualcosa di troppo e deve essere a sua volta eliminato.

Ma il sicario non è un killer qualunque: Ghost Dog è un imponente ragazzo nero che segue in tutto e per tutto lo spirito della filosofia dei Samurai in quanto a efficienza, meticolosità, silenzio e servizio...

 

Non sono (ero?) un appassionato di Jim Jarmusch, ma gli interventi dell’amica Bufera sull’autore mi hanno indotto ad andare a guardarmi questa singolare opera. E mi sono trovato di fronte un gangster-movie rivisitato con toni di noir e suggestioni orientaleggianti in un mix davvero singolare.

La storia si sviluppa fluidamente,  apparentemente rallentata dalle fasi riflessive indotte dalla lettura dei precetti tratti dall’Hagakure, il codice del Samurai, e va presentando tutta una serie di personaggi ai margini della città-bene: malavitosi italo-americani innanzitutto, ma anche giovani rapper neri, un gelataio haitiano che parla solo francese, una ragazzina afro-americana che è assetata di cultura, e appassionati di piccioni viaggiatori. Oltre ovviamente al protagonista che, pur incarnando proprio la cultura della strada in termini di gestualità, abbigliamento, musica ascoltata, e preferenza delle auto da rubare (solo quelle di lusso con un efficiente stereo tra gli optional), ne riesce a stare fuori, vivendo il suo codice esistenziale con un'integrità inattaccabile, compreso il senso di lealtà ad un ideale e a una  persona senza tentennamenti.

Uno che usa strumenti di morte antichi, come il pugnale o la spada, accanto alle armi da fuoco e marchingegni elettronici in grado di aprire tutte le porte, ma il cui vero usbergo è il codice del quale si pasce.

 

 Tra luoghi comuni e spiazzamenti continui (tutti i mafiosi sono infidi e in carne, eppure il protettore del protagonista è un buonuomo che deve sforzarsi di fare il cattivo; il vice-capo rinnega la melodia e si atteggia come un artista rap sul palcoscenico; il padrino dell’organizzazione blocca le riunioni per guardare i favolosi cartoons degli anni ‘30), si notano cenni e spunti che fanno emergere la tanta vita che si sviluppa in quel sottobosco di umanità ai margini della società, peraltro decisamente rappresentata da minoranze etniche (non c’è un bianco anglosassone in tutto il film) e disegnata con grande capacità di caratterizzazione.

 

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