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Il Decameron

Regia di Pier Paolo Pasolini vedi scheda film

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La recensione su Il Decameron

di MarioC
8 stelle

Affidare a Pasolini un testo sacro (fosse esso religioso o laico) significava ottenere una rilettura dal basso di quei capolavori, lo sfrondamento di ogni aspetto latamente sociale o politico e l’apparecchiamento di un’opera che andava alla costante ricerca di una naturalità, ponendo al centro, più che un contesto storico o geografico (non può lasciare indifferente l’ambientazione napoletana del Decameron: Napoli come terra di spontaneità e ferinità giocose eppure, vedremo meglio, latrice di un senso di morte inesprimibile e insopprimibile), i girotondi dell’uomo e dei suoi istinti primari (il piacere, il sesso, la carnalità, l’inganno, la prevaricazione, non ultima la furbizia).

 

A Pasolini non interessavano tanto le storie, le novelle del Boccaccio. Al regista piaceva raccontare l’interazione tra quegli snodi narrativi e la presenza fisica e psicologica di esseri umani che sembrano abitare uno strano e stralunato Eden senza tempo. Un’umanità brulicante in balia di istinti basici e agitatori (che, solo in parte, riscono ad essere composti nel sogno del Giudizio Universale, nell’apparizione di una Madonna bellissima e carnale – interpretata da Silvana Mangano – e nella risistemazione pittorica di una chiesa ad opera del personaggio cui lo stesso PPP dà volto e voce) che pare smorzare nel sesso e nel denaro una sofferenza nata con essa e in essa incistata senza scampo. Decameron è un film di facce, di espressioni, di tic. Facce che, al netto degli attori professionisti, non è difficile immaginare prese dalla strada, da un bassifondo, da un infero suburbano che era indiscutibilmente il terreno di elezione e di coltura della poetica pasoliniana. Facce segnate dal sole e dal vento, ceffi brutti e cattivi, sia pure accompagnati dall’amore che il proletariato sapeva/doveva suscitare nell’autore, volti che esprimono l’attrazione fatale verso un baratro, quel baratro fatto di sessualità spiccia, sudata e animale, corna portate con sorriso beota, vitalità che va a braccetto con la meschinità.

 

 

Ecco: Decameron è film vitale e tristissimo. Vi ricorrono quei topoi che assillarono Pasolini sino alla finale deflagrazione in Salò. C’è il sesso, si diceva: un sesso antiborghese, sciorinato dinanzi agli occhi di tutti, di chi sa e finge di non vedere, un sesso oppresso da un malcelato senso della religiosità ma pronto a scatenarsi di fronte ad un sogno o ad un’apparizione cercata, un sesso che è (già) chiave di volta sociale (la ragazza che prende in mano l’usignolo si condanna ad un matrimonio d’interesse: ecco l’odiata borghesia, ed i suoi pensieri, che rientrano dalla finestra). Ci sono sentine, latrine, c’è soprattutto la merda. Quella merda che in Salò dava il proprio nome ad un girone e qui è protagonista di un non meno scioccante giretto (quello in cui incappa il Ninetto/Andreuccio). Ci sono i rapporti di potere e le loro infingardaggini (il contadino beffato dal Don che finge di trasformarne la moglie in cavalla, per poter finalmente attaccare la coda, ma anche il personaggio di Ciappelletto). C’è la gioventù, ancora non deflorata nella sua innocenza, ma già inquadrata come vittima sacrificale di un certo determinismo ambientale e psicologico. E poi, sopra ogni altra cosa, c’è un senso di morte che permea di sé ogni singola inquadratura, un affacciarsi sconsolato della precarietà esistenziale che si coglie nei lunghi balli senza significato, nell’affastellarsi di uomini, donne e animali in piazze squallide, negli interni che si suppongono irrespirabili, nei volti tristi di bambini che paiono già sapere, in particolare nelle espressioni dei protagonisti, nei loro primi piani, in quel rivolgersi alla macchina da presa che è come un accompagnamento, una sottolineatura dei discorsi e delle espressioni ma che è, anche, cedevolezza al destino, sgomento, innocenza e scaltrezza uniti in micidiale cocktail, finitezza fisica e incapacità di comprendere il moto perenne della Terra, una reiterazione di perché, stemperati nell’istinto e che pure permangono inevasi.

 

Questa era, anche in Decameron, la grandezza del Pasolini regista. Al di là di una tecnica cinematografica non ancora (e forse mai) padroneggiata in pieno, PPP aveva la capacità, tutta intellettuale ma anche poetica, di cavare bellezza dal nulla, e dal dolore. L’obiezione del gran testo sotteso al film è probabilmente irrilevante, stante il sostanziale processo di destrutturazione che il regista operò. Il dato certo è che Pasolini, anche nei nudi frontali gratuiti, in quei falli ostentati, nella ossessione sessuale pervasiva e maledetta, aveva levità di tocco, riuscendo a trasportare tutto sulla nuvola di un Eden vagheggiato, cercato e mai trovato. Uomini e donne nudi, in un terreno in cui la nudità non è tanto veicolo di piacere quanto vettore di istinto, cantico delle creature ed alle creature. Decameron, ovviamente, fu accusato di pornografia. Ma pornografia è strizzare l’occhio di fronte ad un corpo, presentarlo come si fa con un oggetto pubblicitario; e Pasolini, quell’occhio, lo tenne sempre ben aperto, peraltro rigandolo con più di una lacrima.

 

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