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Il Decameron

Regia di Pier Paolo Pasolini vedi scheda film

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La recensione su Il Decameron

di omero sala
7 stelle

 

 

locandina

Il Decameron (1970): locandina

 

La trilogia della vita

Il Decameron (1971)

I racconti di Canterbury (1972)

Il fiore delle Mille e una notte (1974)

Pier Paolo Pasolini 

 

Dopo Medea (1969), Pasolini ritorna con ostinazione friulana a celebrare la genuinità naturale dei tempi andati, ma lo fa con una felice leggerezza e una serenità pacata lontane dalle truculenze cupe ispirate dai miti greci e distanti anni luce dalle atrocità di  Porcile e Teorema, che pure insistevano sulle stesse tesi “antiprogressiste”. 

E lo fa insistendo in altri modi, senza rabbia, per insistere nell’esecrare il conformismo, la degenerazione indotta dalla civiltà e il pantano etico, politico e sociale della massificazione o della “civiltà” (che sono due aspetti inscindibili della evoluzione che lui ritiene involuzione).

Lo fa ambientando le sue storielle scherzose in tre paesi e tre civiltà molto diverse fra loro (per cultura, tradizioni, clima e religione) - quella italica, quella nordica e quella mediorientale - come a voler sottolineare una omogeneità universale sia nella ariosa libertà dei tempi andati, sia nella degenerazione, sia nella cupezza funerea dei tempi nuovi.

Infine, come paradigma di emancipazione, sceglie per la trilogia un’epoca, il medioevo, che viene considerata, sicuramente a torto, oscura e oscurantista, di crisi e di transizione; contrapposta al periodo successivo - il rinascimento - unanimemente ritenuto il tempo della rifioritura di tutto (compresa però la prevaricazione dell’uomo sugli uomini, l’affermarsi delle signorie e delle burocrazie sulle masse, l’invenzione delle regole, l’affermarsi della politica, il consolidamento delle classi sociali, l’emergere degli individualismi autoreferenziali, delle corporazioni egemoniche ed escludenti). 

 

Nel primo film della Trilogia della vita, Pasolini rivisita nove racconti del Decamerone di Boccaccio.

Nel secondo rispolvera il Caucher de I racconti di Canterbury.

Nel terzo si sposta in oriente e si immerge nelle magiche atmosfere de Il fiore delle mille e una notte

Tre capolavori della letteratura sociale, anzi popolare, del  medioevo.

Tre metanarrazioni composite, fatte di brevi storie raccolte attorno a situazioni-pretesto (la peste del 1348 di Firenze, un pellegrinaggio a Canterbury, la dilazione della morte di Shahraz?d).  

 

Il regista da par suo (cioè da grande conoscitore delle cose letterarie, poeta e scrittore, grande esegeta, immenso critico, uomo di cultura a tutto campo) rivisita tre opere note della letteratura che raccontano l’uomo, i suoi vizi disinvolti, la sua carnalità ancora libera dalle mortificazioni dei divieti teologici,  la vitalità degli istinti e l’eros pulsante, i desideri sessuali che non conoscono tabù o classi sociali, l’agire sociale svincolato da leggi celesti e terrestri. 

Per paura di non essere capito, pur evitando ideologismi e proclami, diventa provocatorio: contro la sessuofobia ipocrita, esibisce scene di sesso (perfino con nudi maschili, mai visti al cinema) e assolve la disinvoltura di chi pratica e predica la libertà sessuale. Ma lo fa con incantevole leggerezza poetica, con naturale amorevolezza, senza calcare la mano nella morbosità pecoreccia che vedremo nei successivi film di altri che hanno cavalcato il genere all’italiana, trasformandolo in un repertorio di sconcezze da barzellettieri. 

 

Per evitare fraintendimenti in questa sua missione eversiva sposta la location del Decameron dalla Firenze aristocratica (e borghese) alla Napoli popolana (e sottoproletaria); usa il dialetto partenopeo, quello basso, al posto del bel fiorentino pre-rinascimentale, futura lingua nazionale dei borghesi e dei tiranni; dileggia con gusto anarchico i potenti, sino essi ricchi mercanti, vescovi, frati, nobili o visir. 

 

Sottolineo con due annotazioni, due aspetti non certo marginali che caratterizzano non solo la Trilogia della Vita, ma un po’ tutta la produzione di Pasolini regista.

 

La scelta degli attori e delle numerose comparse Pasolini la fa personalmente sulla base della folgorazione che gli arriva da una fisionomia particolare. Sceglie le facce, più spesso dei brutti ceffi, e le seleziona fra la gente, proprio come il pittore allievo di Giotto da lui interpretato nel Decameron, che scruta la folla di un mercato per individuare i suoi modelli per l’affresco. 

La naturale conseguenza di questo criterio è l’utilizzo di gente che non sa recitare. 

Il “naturalismo” di questi non-attori è sconcertante, ma ha una sua particolare efficacia, difficile da spiegare. La cadenza dialettale di alcune comparse (si sente la calata bresciana nel Kent e l’inflessione calabrese nello Yemen) si mischia col l’ingenuità della declamazione artefatta e monocorde, come quella delle recite dilettantesche, da oratorio, e sconcerta, provocando però un effetto strano, particolarmente efficace, di genuinità e immediatezza spontanea.

 

La Trilogia della vita (così definita dai critici) è, a mio parere,  parallelamente, una trilogia della morte (della metafisica della morte) e anticipa paradossalmente le cupe atmosfere de Le 120 giornate di Sodoma, l’ultimo truce film di Pasolini (che si rivela quel pessimista che io suppongo che fosse).

Come spiegare altrimenti, accanto allo sfavillio esibito della vitalità, le scene di morte disseminate nei film: tombe profanate, teste mozzate, cadaveri, agonie, crocifissioni, decapitazioni, avvelenamenti, castrazioni; e lo sfacelo rappresentato da rovine, latrine e merda, volti luridi e sfigurati da ghigni inquietanti e dentature improbabili; e le lacrime che accompagnano separazioni e tradimenti, le angosce per amicizie e amori impediti, le pene d’amore strazianti. 

E la freccia a forma di pene che allude all’amore come sopraffazione, dolore, morte.

E l’uso ricorrente di Fenesta ca lucive, la struggente canzone napoletana che troviamo sia ne Il Decameron che ne I racconti di Canterbury  (e perfino in Accattone) che narra della morte tristissima di una amata (Nennella toja è morta e s'è atterrata, …  Mo dorme co' li muorte accompagnata).

E la scena finale dei Racconti che mostra un inferno corrusco e feroce, peggiore di quello descritto da Dante, più terribile di quelli dipinti da Hieronymus Bosch.  

 

                                                       

scena

Il fiore delle Mille e una notte (1974): scena

     

 

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