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Prima la musica poi le parole

Regia di Fulvio Wetzl vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Prima la musica poi le parole

di spopola
8 stelle

"Un thriller dell'anima": è così che il regista ha giustamente definito questa delicata ed empatica pellicola che – fra le tante altre cose di cui parla - ci offre anche la preziosa occasione di riflettere su quanto sia difficile comunicare, e come sia importante provare a farlo al di là dei pregiudizi e degli stereotipi, mettendosi di conseguenza in gioco in prima persona con disponibilità e dedizione anche quando le condizioni di partenza sembrano disperate,  poiché questa è la base di ogni possibile rapporto di interscambio e di condivisione in mancanza della quale c’è il baratro dell’indifferenza forse ancora più terribile del rifiuto.

Per rendere percepibilmente chiaro il suo discorso, Fulvio Wetzl, partendo da uno spunto molto singolare e un po’ paradossale, ha scelto di intraprendere un percorso molto articolato che sviluppa (e rende credibile) una parabola indubbiamente radicale, fino a farla diventare molto prossima a una specie di teorema dimostrativo che intende ricordarci rendendolo palese, che la comunicazione non è solo verbale, tutt’altro! riguarda infatti (e coinvolge) molti altri  “linguaggi” che sarebbe errato considerare dei succedanei perché hanno la stessa rilevanza integrativa, per altro evidentissimi in chi si rende disponibile all’ascolto, come quelli corporei, musicali e gestuali (che potremmo definire gli elementi peculiari di quella che viene etichettata come la “comunicazione non verbale” altrettanto fondamentale). Un lavoro insomma molto complesso e ben articolato, che esplora egregiamente queste differenti (ma ugualmente specifiche e pertinenti) modalità di comprendersi, conoscersi, riconoscersi ed accettarsi, che vanno dunque ben oltre le semplici parole perchè mettono in movimento tutti i nostri cinque sensi, e proprio a questi dobbiamo imparare a riferirci  e prestare attenzione, prima di giudicare ed emettere “sentenze”.

Probabilmente è stato il suo progetto più “ambizioso” per lo meno per quel che riguarda il cinema di finzione, questa specie di detective story(così la definisce “il Morandini”) originale e intrigantemente bizzarra che parla di una insolita (ma non tanto inusuale) diversità e indaga sui sentimenti deviati e su quelli più genuini e fruttuosi che provano a sanare un disagio profondo determinato da una  precedente scellerata “scelta”genitoriale pregnata di egoismo e di “possesso”. Un film insomma capace di distaccarsi dalla fiacca produzione standardizzata del nostro cinema autoctono di quel periodo e di elevarsi al di sopra, se non altro per la curiosa specificità della tematica e per la densità di una sceneggiatura (opera dello stesso regista) molto stratificata e corposa. Sono insomma tanti gli elementi  che conferiscono all’opera più di un punto a suo favore per imporsi all’attenzione generale, poichè si presenta non solo sulla carta, ma anche nei riscontri oggettivi della visione, con tutti i necessari crismi - a partire dalla qualità di “forma” e “contenuti” - che avrebbero potuto (e dovuto) garantirgli non solo un adeguato riconoscimento critico, ma anche la possibilità di  poter “penetrare” con successo il circuito delle sale e incontrare di conseguenza l’apprezzamento di un pubblico magari di nicchia, ma che era ancora abbastanza consistente negli anni in cui è stato concepito e realizzato, e che si sarebbe sicuramente trovato in perfetta sintonia nel rapportarsi con un racconto così suggestivo che ha come fulcro centrale della storia, il percorso “riabilitativo” di un nuovo “ragazzo selvaggio” privato fin da piccolo (a causa di un pernicioso e folle senso di “proprietà” a senso unico), del più conforme uso della parola, ma che successivamente e dopo molte peripezie, sarà (ri)alfabetizzato in altro modo attraverso la dedizione e l’affetto, fino a fargli recuperare il senso condiviso che aprirà la porta a un ritrovato dialogo prima con chi si è dimostrato interessato a capirlo e a tentare di decifrare il suo differente idioma, e poi con il mondo e la vita,  grazie al contributo, da una parte, della salvifica forza dei colori e della musica, magistralmente utilizzati per “interagire” ed eliminare le barriere. Fondamentali in questo senso, da una parte un minuetto di Bach oltre che il Quartetto per archi n° 2 Lettere intimedi Leóš Janá?ek, che con il loro essere linguaggio universale (quello della musica può essere a buon diritto definito così) diventano la giusta cerniera che renderà possibile il “riconoscersi”, creando le prime crepe che finiranno per scardinare definitivamente una chiusura anche mentale e rendendo di conseguenza possibile la riabilitazione sociale (consentitemi di definirla così) del bambino dopo quel trauma profondo che lo ha relegato suo malgrado, nella scomoda e solitaria dimensione del “diverso”, e dall’altra lo strutturalismo di Ferdinand de Saussure (il linguista svizzero  che è stato il primo ad affermare che i termini assegnati dall'uomo per "significare" ciò che lo circonda di norma affidati soprattutto alla parola, sono del tutto arbitrari e frutto di convenzione).

Le cose però per il regista e il film purtroppo non andarono in quella direzione (e non certo per colpa di una qualità scadente del risultato finale, come credo di aver già fatto ben comprendere: parlo infatti in questo caso delle incomprensibili “chiusure” del mercato), e questo a mio avviso ha penalizzato fortemente anche i successivi sviluppi dell’interessante carriera di Wetzl, rendendo il suo percorso artistico molto più faticoso e accidentato e – immagino – riducendo drasticamente il numero dei progetti “possibili” che è poi riuscito a realizzare, indirizzati soprattutto verso forme meno canoniche (questo magari è stato persino un bene, se si analizzano i positivi risultati da lui raggiunti non solo con la sua ultima fatica, Prima la trama, poi lo sfondo, ma anche con Non voltarmi le spalle, che a me sembra abbia per altro più di qualche attinenza con la pellicola in oggetto, poiché anch’essa parla di una differente forma di “linguaggio” – quello “dei segni”- nel mondo silenzioso dei non udenti che proprio a causa di questa menomazione fisica, riescono difficilmente a confrontarsi  e dialogare attraverso la parola) che lo hanno comunque lasciato colpevolmente ai margini delle grandi produzioni a causa di una miopia distributiva  carente e difettosa che già allora discriminava, marginalizzandoli, chi non aveva “adeguati santi in paradiso”: una stupida e crudele “censura del mercato” che ha sempre preteso di stabilire a priori - immagino con quale perverso criterio - ciò che si doveva vedere sul grande schermo rispetto invece a ciò che non si riteneva “degno” (ripeto, non certo per meriti artistici, ma semplicemente perché non ci si ravvisavano dentro sufficienti motivi commerciali che ne avrebbero potuto garantire con certezza un adeguato ritorno economico), una criminale forma discriminativa che ha radici e motivazioni da sempre presenti, ma che si sono ulteriormente acutizzate con la progressiva chiusura delle monosale da sempre più interessate al cinema di qualità ormai agonizzante per mancanza di ossigeno e di spettatori sempre più disattenti e rarefatti a cui la costosa  “digitalizzazione” degli impianti di proiezione darà sicuramente il colpo di grazia per i costi proibitivi da affrontare perché anche quei titoli (ormai non dovremmo più chiamarli anacronisticamente “pellicole”) che qualche avveduto distributore avrà il coraggio di prendere in considerazione, troveranno uno spazio sempre più risicato.

I segnali erano molto preoccupanti (e avrebbero dovuto creare un allarme e una mobilitazione che invece non c’è stata) già all’inizio di questo nuovo millennio, come dimostra clamorosamente la sorte toccata a questa interessante opera che può essere davvero presa a paradigma della dissennata politica culturale di un paese come il nostro dove ci si accorge dei disastri provocati quando è decisamente troppo tardi per rimediare perché i buoi sono già scappati dalla stalla.

Prima la musica, poi le paroleè infatti uno di quei titoli che ha avuto più apprezzamenti e consensi all’estero che non in Italia (come al solito Nemo profeta in patria?) nonostante l’interesse che aveva suscitato durante la lavorazione e la presenza di un cast tutt’altro che secondario che in altri tempi gli avrebbe assicurato quasi in automatico quella visibilità che invece gli è stata in gran parte negata. Il giovane protagonista era infatti interpretato da Andrej Chalimon, un nome che adesso forse ci può apparire come quello di un Carneade qualsiasi, ma indubbiamente molto “celebrato” allora poiché era stato proprio poco tempo prima il sensibile interprete di un importante film premiato con l’Oscar (Kolya di Jan Sv?rác, 1996), affiancato da una splendida Anna Bonaiuto, sensibilmente strepitosa in questa sua maiuscola prova che può a buon diritto essere annoverata fra le migliori della sua cospicua e inappuntabile carriera di attrice sia teatrale che cinematografica. Intorno a loro, si muoveva inoltre un altrettanto variegato gruppo di appropriati, ottimi  e prestigiosi interpreti, da Barbara Enrichi (adesso abbastanza  defilata  ma a quei tempi ancora fresca del personale successo ottenuto con Il Ciclone di Pieraccioni) a Amanda Sandrelli (la ricordiamo protagonista femminile accanto a Benigni e Troisi di Non ci resta che piangere, campione di incassi nel decennio degli ‘80), oltre alle solide presenze di  Jacques Perrin, Carlo Monni (anch’esso reduce dai successi con Benigni) Gigio Alberti, Vito (Stefano Bicocchi) e Giacomo Piperno.

Eppure nonostante tutte queste positive premesse, se il film già carico di qualche giusto alloro internazionale (soprattutto in Francia, dove se non erro fu distribuito col titolo Entre la musique)  riuscì alla fine e dopo molte travagliate vicissitudini a ottenere una risicatissima distribuzione in qualche sala, lo si deve alla lungimiranza di Claudio Zanchi (allora patron dell’Atelier di Firenze, e responsabile della programmazione del cinema Alfieri, faro del d’essai, celebrato anche ne Il pratodei fratelli Taviani, e proprio recentemente risorto a nuova vita sotto la direzione di Sergio Bini in arte Mago Bustric) che si innamorò dell’opera e la aiutò a trovare una piccola realtà disposta a rischiare (non va dimenticato che il film aveva vinto anche il “Castello d'argento” al Festival di Bellinzona), talmente marginale però e  poi non fece molto per farla circolare davvero. Forse proprio per questo rapporto privilegiato con Zanchi  e perché girato in parte in questa regione e dentro le mura di una splendida villa del volterrano, è stata la Toscana - e Firenze in particolare - la zona dell’Italia dove si è visto di più e meglio.

Ma torniamo al film per ribadire che ci troviamo di fronte a un’opera particolarmente curata e soprattutto zeppa di idee, di quelle insomma capaci di trasmettere allo spettatore una profonda empatia sensoriale: Prima la musica, poi le parole, è a suo modo – come ho già accennato prima - un’opera sulla diversità trattata in maniera singolare, che ha il pregio e la forza di  trasportarci dentro un vortice carico di emozioni, in cui ci possiamo benissimo riconoscere (quasi) tutti, non tanto per il caso specifico trattato (che come abbiamo visto è decisamente insolito) ma per qualche sotterranea assonanza con fatti del nostro personale vissuto che in qualche momento della nostra vita ci hanno fatto avvertire - nonostante i nostri sforzi per comunicare - il peso del “non essere capiti” che ci ha isolati e messi all’angolo.

Si tratta insomma e alla fine, proprio di una profonda ed accurata analisi sulla  difficoltà della “relazione” (qui portata alle estreme conseguenze) che determina  prima diffidenza e poi rifiuto da parte di chi non è, non può o non vuole essere conforme (nel nostro caso  un portatore di “segni lessicali non corrispondenti alla norma acclarata della convenzione”) e diventa per questo (anche inconsciamente) pericolosamente infido per gli altri che non si sforzano nemmeno di ragionarci sopra per capirlo e trovare alla fine una via d’uscita.

Qui infatti il discorso (anche critico) su questa “incomunicabilità” che sembra essere irreversibile, diventa particolarmente chiaro e palese proprio perché si esplicita partendo da un differente uso delle parole comuni che -  montate “in libertà” - assurgono a differenti significati trasportandoci in una specie di caotica torre di Babele che i più considerano, a torto senza senso compiuto che ha proprio nella musica, la sua costruzione “strutturale”: “tocco cometa, accarezzo mentire”,sabbia canta”, sono alcune delle frasi “sconnesse” che il bambino pronuncia, gettando lo sconcerto in chi lo ascolta. Ma è forse solo un gioco di prospettive infantili volutamente deformate, o c’è molto di più (anche di tragico) che si nasconde dietro? Se è vero infatti che Giovanni (il nostro protagonista) attribuisce alle parole un differente senso, non parla  però una lingua totalmente incomprensibile o sconosciuta  corrispondente semplicemente a un idioma da “ricomporre” e ristrutturare dopo aver trovato la giusta chiave per capire il senso con cui è stato concepito, e le ragioni che lo hanno generato. Il messaggio palese che ci viene veicolato, può essere per questo universalizzato spostandolo ad ogni altra forma di divergenza. Quale mezzo migliore allora se non quello di individuare un minimo comune denominatore privilegiando anche qui, come si fa benissimo in altre circostanze, il linguaggio delle emozioni e partendo di conseguenza dall’arte e dalla musica, che come ben sappiamo sono le forme che meglio di ogni altra modalità di rapporto, riescono a decodificare il linguaggio e a renderlo comune ad ogni latitudine, magari capovolgendo come qui la briosità delle note di Bach e trasformandole in una melodia sfuggente e misteriosa che non a caso sintetizza già da sola l’angoscia di un bambino che capisce di non essere compreso, ed è disorientato perché crede di usare correttamente l’italiano, solo che lo esprime nell’unico modo che gli ha insegnato il suo “cattivo maestro”, ed è sempre più isolato perché nemmeno lui comprende ciò che gli altri provano inutilmente a comunicargli.

E’un film che ha una regia preziosamente affascinante fra “implosioni” ed “esplosioni” dell’anima, quasi un thriller appunto non solo sull'handicap come ipocrisia della normalità, ma anche sul rapporto mediato tra mondo degli adulti e dell'infanzia e sulla comunicazione interrotta: una storia di amori o disamori, e insieme un'analisi seria e specifica sugli strumenti del comunicare, e quindi sulle maniere degli esseri umani di rapportarsi gli uni agli altri, oltre che una lezione sul linguaggio e sulla solidarietà, come l’ha definita a suo tempo Lietta Tornabuoni (articolo pubblicato su La Stampa del  28 aprile 2000).

Sulla trama

In sintesi il discorso è proprio quello che ho provato a fare sopra, ma per farlo comprendere meglio – visto che si sta parlando di “comunicazione” - credo che sia opportuno e necessario entrare nel vivo della storia e raccontarla il più dettagliatamente possibile, per non fare torto al regista che l’ha trasferita  in immagini con una sensibilità davvero tutta speciale, così da rendere chiaro fino in fondo, la particolare materia indagata con questa esplorazione ricognitiva che parte proprio dalla musica per  ridare un senso alla vita di un ragazzo che un padre possessivo ha volutamente costretto a rimanere per troppo tempo avulso dal mondo e che avrebbe potuto avere un esito infausto).  Giovanni, il  protagonista della vicenda, sa infatti esprimersi solo attraverso quel linguaggio assurdo inventato dal genitore per farlo “cosa sua” (ma questo nel film lo scopriremo in un secondo tempo) così che quando l’uomo improvvisamente muore per un infarto, il ragazzo si trova isolato e solo, impossibilitato a  comunicare con il mondo esterno. Per un po’, dorme sulle ginocchia del cadavere del padre (nessuna notizia invece della madre che non risulta facente ancora parte del nucleo familiare), ma poi il freddo e i morsi della fame si fanno sentire  con crescente prepotenza, e alla fine non avendo altre alternative di sopravvivenza in quella casa, decide disperato di vestirsi e di uscire dalla villa in cerca di aiuto. Senza una meta concreta a cui approdare, vaga per la campagna coperto dal suo anacronistico e antiquato cappotto loden, portandosi dietro come una coperta di Linus, soltanto un libro (il “Prontuario dei colori”).
Comincia così per lui un’odissea fatta di drammatiche incomprensioni (la prima impressione che ricevono coloro che lo ascoltano, è quella che declami i versi di qualche poesia ermetica poco conosciuta, portatrice di un fraseggio che è lontanissimo dall’italiano corrente e che non è nemmeno assimilabile a un dialetto o a qualche oscura lingua straniera). Nessuno sembra infatti capace di interpretare ciò che il bambino prova a dire, e nemmeno lui è in grado di capire le istanze dei suoi interlocutori.
A causa di quel corto circuito della parola, il piccolo viene così ricoverato in ospedale dove però i medici non riescono nemmeno a decifrare quale potrebbe essere il problema che lo affligge e che lo porta ad esprimersi con quell’incomprensibile linguaggio (immaginano che sia la conseguenza di un trauma, ma non vanno oltre, e cercano di conseguenza, di forzarne il cambiamento ad ogni costo pretendendo di riportarlo alla normalità del parlare corrente, cosa questa che crea però ulteriori disagi nel fanciullo, fino a farlo regredire quasi ad una fase autistica). E’ di fronte a fior di studiosi e  medici che lo vorrebbero semplicemente "rieducare" all'uso corretto della lingua italiana (ma corretto solo perché una convenzione ci dice che lo è) che si produce dunque un ulteriore trauma ignorato dai più . Solo una dottoressa (Marina) psicologa e logopedista, ne comprende il dramma, e intuisce che sono invece loro, i cosiddetti “normali” che dovrebbero cercare di imparare il codice verbale utilizzato dal  bambino, partendo proprio dal capire come e perchè si è creata quella frattura lessicale: soltanto lei e un’infermiera altrettanto disponibile se ne fanno carico però, perché gli altri continuano imperterriti sulla propria strada sordi alle sollecitazioni della donna . Imparare  a riconoscere i differenti “segni”, è questo che crede di aver capito la dottoressa, ed  è attraverso il lavoro certosino che ne consegue, in quel  rimettersi costantemente in discussione, che la donna riesce a definire un rapporto che le permetterà in divenire, di svelare il “mistero” che sta dietro al linguaggio distorto di Giovanni.
Una sera il bambino, provato dai continui esperimenti coercitivi dei dottori, scappa dall'ospedale. La dottoressa se ne accorge e lo segue nella fuga che li porterà entrambi lontano dalla struttura sanitaria, a Volterra, nella casa della madre defunta dell’infermiera che la stessa, generosamente, mette a loro disposizione.
Nella quiete serena dell’appartamento, al riparo da sguardi indiscreti, la dottoressa avrà così modo di approfondire il rapporto con Giovanni, sperimentando varie metodologie di approccio che prevedono l’utilizzo di altri linguaggi non verbali, come la cromoterapia (ovvero il linguaggio dei colori) e – con il prezioso contributo del fidanzato violoncellista - la meloterapia (il linguaggio musicale), oltre a quello della gestualità. Grazie a queste intuizioni, portate avanti con caparbietà e determinazione,il ragazzo torna così a comunicare e a (ri)trovare la normalità di un di una costruzione comprensibile anche del discorso. Mentre la polizia è sulle loro tracce e sta individuando il loro nascondiglio, Marina come ho già detto prima, riuscirà a concludere felicemente la sua indagine e a risalire alle cause (compreso l’enigma di quelle frasi sconnesse, legate proprio agli accordi musicali) ritornando alla fine col fanciullo nella sontuosa villa dove lui ha vissuto chiuso ed isolato da suo padre, glottologo impazzito che per una folle motivazione scientifica aveva insegnato quel linguaggio distorto al figlio, provocandone di fatto l'isolamento comunicativo. Ricostruito il puzzle, verrà rintracciata anche la madre che aveva abbandonato la famiglia quando il figlio era ancora piccolissimo.

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