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Prima la musica poi le parole

Regia di Fulvio Wetzl vedi scheda film

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La recensione su Prima la musica poi le parole

di nous1980
10 stelle

Alcune considerazioni sul film “Prima la musica, poi le parole” di Fulvio Wetzl, Italia, 1998

 

 

Qual è il confine tra educazione e manipolazione? Quando un genitore, anche al di là delle sue stesse intenzioni, altera la condizione mentale del figlio fino a renderlo, nell’ora e nel futuro, un disadattato? Come può quest’infante sempre vissuto in questa condizione di alterazione della realtà familiare e sociale giungere a considerare questa stessa realtà l’unica realtà vera, e dunque a esservi felicemente e inconsapevolmente immerso? A queste domande, che costituiscono anche la base e lo sfondo di ogni mirato intervento rieducativo e assistenziale nei confronti di quelle famiglie in cui l’istituzione riscontra la necessità e il bisogno  di un supporto esterno da parte di figure professionali deputate, dà, a partire dalla essenziale ma completa sceneggiatura, a finire alla curatissima e simbolica rappresentazione scenografica,  un considerevole contributo questo film impegnato e impegnativo, nonché praticamente ignorato sia dalla critica che dalle stesse sale cinematografiche cosiddette d’essai.

La storia è quella di un bambino che vive una condizione apparentemente privilegiata all’interno di un contesto familiare alto-borghese (il film è girato nella bellissima Villa Inghirami, nel Volterrano), ma che ha come genitore – la madre appare in una sola scena ed è tutta concentrata sulla sua ulteriore gravidanza - un colto padre-padrone. E’ proprio qui, nella natura di questo rapporto educativo molto particolare che il padre impone al figlio, il primo shock cui è sottoposto lo spettatore: padre-padrone non nei modi ma nella violenza psicologica con cui impone al figlio, in un rapporto simbiotico esclusivo e escludente tutto il resto del mondo (il bambino non sembra, pur essendo in età scolare, frequentare nessuna scuola né avere altri rapporti al di fuori di quelli strettamente familiari),  il proprio lessico familiare fatto di parole comprensibili solo a lui e, appunto, al figlio. La reazione dello spettatore è di sorpresa e sconcerto, soprattutto quando il padre, colto da un attacco di cuore in cui, dimentico del lessico, implora il figlio di chiamare aiuto, e dunque, evidentemente inascoltato perché incompreso, muore. La realtà esterna quindi fa finalmente il suo ingresso a rompere questo equilibrio precario: bellissima la scena in cui il bimbo apre  il cancello della Villa che si spalanca sulla vita, e lui esce finalmente dalla maledizione di questo incantesimo alla rovescia. Ma che cosa accadrà ora? Come faranno due universi vicendevolmente escludentisi, quello della società “normale” e quello di una piccola esistenza che, lì sperduta, viaggia sui binari di una propria particolarissima identità, a collegarsi? Lasciamo allo spettatore la voglia di scoprire cosa il regista ha preparato per noi, ma certo è che egli non risparmia nessuna delle istituzioni, nemmeno quella medicale a pro preposta, ossia la casta di psichiatri e psicologi che, mossi solo dal cervello, non possono che decretare l’anormalità del piccolo. Non è infatti solo con il cervello che si dipana la trama di un problema apparentemente irrisolvibile come quello della comunicazione tra diversi: il cuore, anch’esso da solo impotente a guidare l’analisi della soluzione, a sua volta guidato, deve giungere a colmare le lacune del mentalismo e dell’intellettualismo.

Mirabile il parallelo istituito dall’autore tra il dramma del bambino e quello del Cristo, rappresentato in un celebre quadro di Rosso Fiorentino mentre viene deposto dalla Croce, e su cui la macchina da presa indugia a lungo, apparentemente soltanto nel senso di suggerire la drammaticità del racconto e dei due destini. Ma non c’è solo questo: la scena della deposizione del Cristo dalla Croce si ricollega apparentemente senza alcun legame al prefinale in cui in una lezione universitaria viene mostrata la nuova logica delle geometrie non-euclidee: il regista sembra suggerire che è necessaria, perché il mondo possa e debba ulteriormente evolversi nel progresso della storia, oltre il multiculturalismo e il globalismo, l’uscita dalla Croce che ancora impregna la cultura europea, e che l’Occidente concentrico vorrebbe imporre al mondo come suo primario sguardo. Non basta allora che, come vediamo sotto i nostri occhi attenti, le tre religioni monoteiste dialoghino tra loro alla ricerca di una nuova fede comune, ma che questa fede, nel sentimento del sacro insito in ciascuno e che purtroppo vediamo muovere la mano dei fondamentalismi di ogni risma, davvero sia la realizzazione concreta di un nuovo umanesimo non più etnocentrico né, meno che mai, antropocentrico, di là da venire sicuramente, ma altrettanto da perseguire con tenacia sia nel piccolo del quotidiano di ognuno di noi sia nel grande delle istituzioni sovranazionali e internazionali. Ma direi che, mentre per l’idea di un’Europa unita, nonostante la necessaria preminenza mai sufficientemente sottolineata della storia delle idee  su quella economica, basta risalire almeno al XIX secolo, per rifarsi a una storia del mondo sul piano della realtà concreta bisogna riandare al tempo precedente alla divisione politica dell’Impero romano attuata da Teodosio nel 395 d.C., o allo scisma religioso del 1054 d.C. tra Oriente e Occidente, che hanno segnato in modo indelebile la frattura culturale il cui contrasto violento e monopolizzante trova oggi posto nella cronaca quotidiana, con tutto il suo portato di sfruttamento industriale e di imposizione di un modello culturale creduto “superiore” solo perché porta maggiore benessere sociale e materiale.

Ma non divaghiamo, anche se il film conduce lontano con queste considerazioni: c’è da dire ancora che la recitazione di Anna Bonaiuto, la psichiatra che si occupa da vicino del complicato caso, è superba e come al solito fortemente partecipata, d’impatto. E ancora, che la sceneggiatura è asciutta, senza sbrodolii né derive da melodramma familiare o sociale, nonostante la scottante materia. E infatti il regista conclude con un finale affatto consolatorio o da happy end: senza volervelo contro ogni regola svelare, godetevi il trittico della natività ricomposto anche figuralmente, che suggerisce che la famiglia di sangue è morta, e che quella del  cuore è tutt’altro che di là da venire. Nous1980: Stefania Sàpora, 14.06.12

 

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