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Lo zoo di Venere

Regia di Peter Greenaway vedi scheda film

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Davide Schiavoni

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La recensione su Lo zoo di Venere

di Davide Schiavoni
6 stelle

"Il cinema è troppo importante per lasciarlo fare a chi racconta [solo] delle storie".
 
Peter Greenaway è un regista di origine gallese (Newport), le cui radici artistiche affondano nella pittura, matrice che si riverbererà su tutta la sua successiva produzione da cineasta. Mentre studia presso il "Walthamstow College of Art", comincia a interessarsi di cinema dopo essere stato folgorato dalla visione del capolavoro d’Ingmar Bergman "Il settimo sigillo". Diventa così critico cinematografico e montatore al "Central Office Information", dove realizzerà svariati documentari. Il primo lungometraggio arriva nel 1980: "The falls" ("Le cadute" o "I casi"). Si tratta d’un film paradocumentaristico, suddiviso in 92 parti, che si configura come una raccolta a carattere enciclopedico di altrettante interviste s’un misterioso e immaginario fenomeno che ha ammorbato e ucciso numerosi individui: un "violent unknown event" (VUE) legato in qualche modo agli uccelli (da notare che il padre di Greenaway era appassionato di ornitologia). In esso sono già riscontrabili, a livello seminale, molti dei temi e degli stilemi che connoteranno i lavori seguenti: ad esempio i giochi di parole, le classificazioni, il formalismo del linguaggio cinematografico, le similitudini tra la specie umana e quella animale ecc.
Un paio d’anni dopo è la volta de "I misteri del giardino di Compton House", opera che gli consente di ottenere visibilità sul piano internazionale e che si presenta come una sorta di sguardo sui limiti dell'arte. Nel 1986, invece, esce una delle sue pellicole più articolate e complesse: "Lo zoo di Venere".
 
"Due etologi, Oswald e Oliver Deuce (Brian Deacon e Eric Deacon), fratelli gemelli (e siamesi separati), perdono in un bizzarro incidente d'auto (con un cigno!) entrambe le mogli. Questo tragico evento non fa che aggravare la loro ossessione per la decomposizione animale.
Entrambi cominciano a frequentare Alba (Andréa Ferréol), la donna che nello stesso incidente ha perso una gamba, e instaurano con lei una bizzarra relazione a tre complicata ulteriormente dall'inquietante Van Hoyten (Joss Ackland), il chirurgo che ha eseguito l’amputazione. Dopo aver subito la recisione dell'altro arto inferiore e aver dato alla luce due gemelli, di cui "il" padre sono i fratelli Deuce, Alba si lascia morire. Non potendo utilizzare il suo corpo per le proprie ricerche, Oswald e Oliver decidono di diventarne loro stessi le cavie finali" (fonte Wikipedia).
 
Se ne "I misteri dei giardini di Compton House" Peter Greenaway si sofferma sulla tematica del fallimento dell'artista, manifestandone a un tempo la presunzione e l'incapacità di penetrare il reale, ne "Lo Zoo di Venere" la sua visuale s’allarga fino a comprendere l'intero concetto di razza umana, nella cui evoluzione egli ravvisa null'altro che un perpetuarsi d’istinti, tensioni e problematiche sempre uguali.
È il fallimento del soggetto in quanto tale ad interessare questa volta il regista gallese, il quale ne sminuisce la portata assimilando la sua esistenza alle dinamiche che ineriscono alla vita delle varie specie animali, financo quelle più elementari. Sesso e pulsione di morte sono il leitmotiv dell’opera in questione, dove l'attrazione morbosa da parte di due etologi per una donna, causa della sciagura che li ha toccati e nel contempo fonte del loro piacere, e l'ossessione per la decomposizione delle più disparate forme di vita (da una semplice mela a dei crostacei, dagli animali all'uomo) convergono per sfociare in una rappresentazione dell'umanità incagliata, a dispetto del progresso formale e di facciata che l'ha attraversata nei millenni, in una rete di pene, sofferenze e morte cui non è dato rimedio ("tutto questo tempo – quello dell'evoluzione, appunto - per arrivare a ciò", afferma sarcasticamente Alba alludendo alla sua condizione di donna menomata).
Un'opera costellata di simbolismi, numerologie, riferimenti mitologici (il mito di Leda e il Cigno, la leggenda dei gemelli Dioscuri Castore e Polluce), tassonomizzazioni, calembour e sciarade: a cominciare dal titolo stesso (quello originale: "Una zeta e due zeri") che nell'associare i nomi dei due protagonisti maschili (Oswald e Oliver) all'ultima lettera dell'alfabeto, iniziale –tra le altre cose- del nome di quell'animale (la zebra) di cui essi hanno seguito e documentato il progressivo disfacimento, lascia trapelare il riferimento alla sorte "indegna" (il lento marcire) che toccherà a entrambi –così come sta accadendo alle loro rispettive mogli- e, in senso lato, a tutti noi. Ma la zeta, in quanto punto terminale, evoca lo spettro della morte, alla quale fa da contraltare la A di Alba: personaggio femminile dal cui seno origina la vita. E su quest’ambivalenza, su questa simmetria tra principio e fine, bianco e nero (colori, la cui presenza è sottolineata in diversi momenti della pellicola, ed anche nei più piccoli particolari –come, ad esempio, le scarpe che indossa il personaggio Venere di Milo) è giocata tutta l'architettura formale del film, oltre che la trama medesima in virtù dell'espediente narrativo sul tema della gemellarità. Greenaway traccia con la mdp geometrie precise e lineari, attraverso movimenti in profondità in avanti e indietro e piano-sequenza laterali, che scorrono da destra a sinistra e viceversa (questi ultimi verranno riproposti con un’accentuazione ancora maggiore ne "Il cuoco, il ladro, sua moglie e l'amante"); ad esse si giustappongono inquadrature fisse scenograficamente costruite sull'idea della specularità, che trova il suo picco figurativo nella suggestiva sequenza in cui i Deuce (l'uno accosto all'altro come fossero un'unica persona appoggiata, di fianco, ad uno specchio) si trovano, intenti nel loro esperimento, in prossimità del greto d'un fiume donde l'immagine riflessa consente di reiterare e amplificare il rimando alla doppiezza. Ed in questa simmetria più volte ripetuta nella costruzione scenica, in tale gioco di doppi risiede l'idea d’un equilibrio naturale (vita/morte) che non è possibile spezzare (cfr. la ritrovata (ri)unione da parte dei fratelli siamesi, così come la complementarietà instaurata tra Alba e il suo nuovo compagno, menomato come lei), e alla cui eternità (nella quale è "ingabbiato" –per l'appunto- il genere umano) sembra fare riferimento la ricorrenza del numero 8, simbolo dell'infinito. Otto, infatti, sono gli esperimenti condotti dai gemelli, otto sono le parti del documentario sull'evoluzione della specie, otto sono le specie di animali liberate dai gemelli in funzione della loro ricerca scientifica. Perfino la coppia di O della parola contenuta nel titolo pare alludere a quel numero.
Quanto all'ambientazione dello zoo, essa, nella maniera in cui è vista e raccontata, si ricollega alla metafora sull'esistenza dell’uomo: un'immensa cella in cui si muovono, come bestie (parallelismo reso esplicito dall'immagine del gorilla con la gamba amputata, che si rifà a quella della protagonista), soggetti animati e dominati dalle stesse primordiali tensioni, espresse dal senso di sopraffazione, dall'accoppiamento e dal "voyeurismo". E non è una caso che i convegni della meretrice Venere di Milo avvengano proprio all'interno dello stesso giardino, contesto nel quale gli impulsi e gli atti sessuali vengono restituiti alla loro originaria dimensione animalesca. D'altronde, la passione per i racconti di pornografia zoofilica, di cui ella fa sfoggio con molta naturalezza, e l'ultimo incontro sessuale che la stessa terrà la dicono lunga.
Da sottolineare, inoltre, la contiguità fra l'iniziale del suo (sopran)nome e l'ultima lettera dell'alfabeto la quale potrebbe anche "freudianamente" leggersi nel senso d’uno stretto e funzionale legame fra Eros e Thanatos(=la sessualità che si pone come strumentale alla pulsione di morte).
E in tutto ciò l'arte che ruolo ha? Quello più infimo, incarnato dall'inquietante chirurgo/pittore-falsario Van Hoyten: banale mimesi del reale, con l'aggravante d’una massiccia dose di sadismo. Non più, quindi, passiva –o al più "giullaresca"- riproduzione del mondo circostante (secondo la prospettiva presente ne "I misteri dei giardini di Compton House"), ma azione su di esso, scevra di estro creativo (Van Hoyten, il cui nome riprende quello d'un altro famoso falsario, si limita ad eseguire copie di quadri del pittore olandese Jan Vermeer) e per di più votata al male. Egli, pur di riproporre fedelmente le opere di Vermeer, è disposto persino a modificare cinicamente la natura della "sua musa", arrivando a reciderne l'altra –residuale- gamba.
Alla fine, tra le svariate tematiche e riflessioni di cui è intrisa la pellicola, ciò che più prepotentemente emerge è l'impossibilità di penetrare e svelare il mistero della vita e della morte: ne recano testimonianza l'ossessiva visione del lungo documentario sull'evoluzione della specie, nella quale è assorto Oliver; nonché il finale beffardo, che suona come un grande e sardonico ghigno della Natura contro le velleità della scienza. E poi vi è quella percezione di disfatta e fallimento che, rispetto all'opera precedente, qui si fa sentire con maggior vigore a causa dell'impotenza dettata dal senso d’imperscrutabilità e ineluttabilità delle leggi biologiche, che aleggia sin dal principio della narrazione (e dal quale sembra essere inconsciamente colta persino la ragazzina, figlia di Alba, allorquando, impegnata in un giochino di associazioni basato sulle lettere dell'alfabeto, pronuncia le seguenti parole: "P come pinguino, Q come quaglia, R come rinoceronte, S come sarcofago").
Di fronte a cotanto inesplicabile e funesto stato delle cose, un dubbio si pone dilacerante e quasi ineffabile: che forse sarebbe stato meglio se l'ominazione non si fosse mai verificata, così come a un certo punto del film lascia intendere Oliver: "Vedi... i pesci hanno anticipato tutto quello che è venuto dopo... non capisco perché l'evoluzione sia andata avanti, poteva fermarsi qui..." (affermazione immediatamente sottolineata dall'immagine di due pesci finti in un acquario, posti simmetricamente l'uno di fronte all'altro); o addirittura, passando sarcasticamente al campo biblico (nonché della misoginia), se la razza umana fosse progredita facendo a meno dell'elemento femminile: "c'è però chi dice che l'evoluzione finisca con la donna" chiosa a un certo punto il gestore dello zoo; "e con una mela" soggiunge Oliver.
Dopo "Il mistero dei giardini di Compton House", Greenaway offre un'altra prova della sua stupefacente abilità nel dar vita a scene magnificenti -al limite del perfezionismo- che, per la disposizione degli oggetti e delle persone (durante le riprese, Andréa Ferréol diverse volte manifestò il suo disappunto, affermando di sentirsi più un mobile di arredamento che un'attrice), la scelta dei luoghi, i colori, le luci e la fotografia (a cura di Sacha Vierny, che di qui in poi porterà avanti un duraturo e proficuo sodalizio col regista di Newport) si rivelano improntate a uno stile formale che, ispirandosi proprio ai quadri di Jan Vermeer, rasenta quello pittorico.
Non manca neanche la tipica vena ironica e grottesca del cinema "greenawayano", che stempera la portata drammatica della vicenda ingenerando il distacco nello spettatore rispetto ai fatti narrati.
Tale peculiarità è individuabile pure sotto il profilo tecnico-registico: le sequenze più crude e "scabrose", relative ai cadaveri e alla decomposizione degli animali, sono realizzate attraverso l'effetto-intermittenza del flash degli scatti fotografici (cui fanno da contrappunto le cadenze segnate dalla musica di Michael Nyman) e il movimento a ritroso della macchina da presa, che in questo modo danno allo stesso tempo la possibilità di vedere e non vedere; e persino con quello che in apparenza si presenta come l'espediente del fast forward (in forza del quale l'impianto scenico sembra portarsi al confine con l’irrealtà), ma che invero è una sequenza accelerata d’immagini richiamante il famoso esperimento di Eadweard Muybridge ("The horse in motion").
Di qui a un anno sarà la volta di quello che, probabilmente, costituisce l'apogeo della produzione del cineasta gallese. Con "Il ventre dell'architetto" s’acuisce il senso di impotenza (trasmesso con estremo pathos) per l'impossibilità di controllare il reale, e il sopravvento della Natura si fa ancora più penetrante e crudele perché non visibile in superficie: il deterioramento del corpo non si svolge più davanti all'occhio nudo, ma passa all'interno del corpo medesimo agendo "sotterraneamente" (nell'addome e nella testa) e prendendosi beffe di chi presume di poter atteggiarsi a padrone della propria esistenza: dal lavoro all'arte, dalla propria donna alla vita stessa, tutto sfuggirà di mano al protagonista Stourley Kracklite. In quest'opera Greenaway, accantonati i rompicapo da onanismo intellettuale (presenti così copiosamente ne "Lo zoo di Venere", che sarebbe impresa improba, ed inutile, enumerare tutti), si concentra in massima parte sulla struggente parabola discendente d’un uomo (solo), travolto dall'inesorabile susseguirsi ciclico di nascita e morte (rectius, di morte e nascita); e lo fa mediante una storia che, proprio in quanto denudata di superflui giochini cervellotici e atmosfere grottesche, s’impone in tutta la sua abbacinante e sconvolgente tragicità.

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