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Villaggio dei dannati

Regia di John Carpenter vedi scheda film

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Eric Draven

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La recensione su Villaggio dei dannati

di Eric Draven
6 stelle

 

Dopo Il seme della follia, considerato a ragion veduta una delle sue massime opere, apogeo di tutta la sua personale e affascinante poetica, John Carpenter si presenta alle platee mondiali con Villaggio dei dannati. Sì, questo il titolo esatto, anche se probabilmente i distributori italiani hanno peccato d’indelicatezza nella traduzione, troppo letterale, che invece abbisognava dell’articolo determinativo davanti. Ma si sa, si è spesso frettolosi e, per sbadata adesione a un’erronea filologia traduttiva, si casca paradossalmente nell’inesattezza più sconcertante. O meglio, a essere precisi, in maniera stupida, con ogni probabilità lo si è intitolato così per differenziarlo dall’originale, di cui questo è un remake sui generis, cioè Il villaggio dei dannati del 1960 per la regia di Wolf Rilla.

Film considerato minore o addirittura sbagliato, che all’epoca fu assai disdegnato da tutti. Il pubblico rimase interdetto dinanzi a tale oggetto strano, così lo potremmo definire, e inclassificabile, arrivando alla sin troppo scontata e pressappochistica conclusione che Carpenter, stavolta, imbrigliato da una pellicola girata su commissione, non avesse affatto centrato il bersaglio, rimanendo intrappolato in quello che fu sbrigativamente, superficialmente etichettato come uno sconclusionato pasticcio. Nemmeno la Critica gli fu benevola, anzi, addivenne a giudizi a mio avviso scorretti e fastidiosamente, repentinamente drastici, che liquidarono il film, categorizzandolo tra i “dimenticabili”. E snobbando l’opera con manifesta, ingiusta irrisione.

Che fu invece soprattutto ricordata per aver offerto al compianto Christopher Reeve (Superman) uno dei suoi ultimi ruoli, se non l’ultimo addirittura, prima della tragica paralisi che lo colpì e lo costrinse sulla sedia a rotelle. E che a causa dell’aggravarsi della sua salute, già molto cagionevole, tanto lo debilitò da portarlo precocemente alla morte, avvenuta per infarto, a soltanto cinquantadue anni.

Il film è un parziale rifacimento, come detto, del film degli anni sessanta, che però sposta l’ambientazione dal Regno Unito agli Stati Uniti. La località nella quale si svolge la vicenda si chiama sempre allo stesso modo, cioè Midwich, ma stavolta ci troviamo all’interno di una città costiera californiana.

La sceneggiatura è di David Himmelstein e attinge, parimenti all’originale, al romanzo fantascientifico di John Wyndham, I figli dell’invasione (The Midwich Cuckoos).

 

La trama è semplice, molto lineare...

 

A Midwich, la popolazione all’improvviso, come un fulmine a ciel sereno, viene colpita da una sorta di black-out collettivo, si addormenta e cade in momentaneo stato di trance.

Al risveglio, dieci donne, alcune peraltro vergini, all’unisono rimangono miracolosamente incinte. Trascorsi nove mesi esatti, nella stessa notte tutte partoriscono i loro rispettivi bambini. Ma una bambina nasce morta, cioè non è sopravvissuta al parto, per asfissia polmonare. E il suo feto viene rubato e prelevato dall’enigmatica dottoressa Susan Verner (Kirstie Alley), che pare già sapere che i figli di questo parto di massa sono e saranno dei mostri, dei bambini dai capelli albini e platinati, dotati di malvagissimi poteri telepatici, capaci di far commettere alle persone, con la loro malevola influenza psichica, degli atti scellerati, autolesivi. Sì, i bambini possiedono l’aberrante dono di poter plagiare le menti delle persone, tanto da indurle perfino al suicidio o a gesti riprovevoli.

I bambini crescono e si coalizzano, vivendo in perfetta, angosciante simbiosi. Pare che non provino emozioni, tanto sono spietati, crudeli e robotici. Soltanto uno di loro, David, è capace davvero di provare emozioni. A differenza degli altri che, appena avvertono sentimenti negativi nei loro riguardi, si vendicano dei loro torturatori, David sa invece entrare in profonda, umanissima empatia con la gente del paese, sa sondare nelle loro personali afflizioni per discernere, carpire e capire meglio i dolori che tanto li tormentano. E sa angelicamente comprenderli. Ciò non viene esplicitato del tutto ma è sottilmente sottinteso.

Il resto lo scoprirete guardando il film.

 

Film molto classico, con bellissime inquadrature iniziali ove la macchina da presa sorvola la costa e plana, a volo di elicottero, sulla vegetazione, infondendo allo spettatore un vertiginoso, cataclismatico senso già molto alienante di distopica placidità perturbante.

Un film, sì, imperfetto, ma invero anche molto seducente, girato davvero come fosse un film degli anni sessanta, e parte del merito di questo sapiente aggiornamento fedelmente retrospettivo va al direttore della fotografia, Gary B. Kibbe, immancabile creatore di atmosfere ammalianti quando lavora col suo fido maestro John.

Capace d’illuderci stupendamente di essere catapultati davvero in una pellicola più antica rispetto al tempo nel quale è stata filmata.

Un film pregiato d’annata dal sapore, appunto, vintage. Perfino il soffuso logo iniziale della Universal, ad apertura degli open credits, pare volutamente spuntare e provenire da un’intrigante pellicola anni 50/60.

Un film dal pacato ritmo soporifero come se, assistendovi, noi stessi spettatori rimanessimo sotto ipnosi, un film carezzevolmente ondulato e morbido. Spiazzante.

Film dai toni plumbei e dalle tonalità di colori opachi con sprazzi di vivacità da Cinema espressionista.

Film che gioca apposta sul colore delle cornee, delle lucenti e traslucide iridi dei protagonisti e dei loro occhi da marziani, sia quelli dei bambini, ritoccati digitalmente dagli effetti speciali della Industrial Light & Magic, sia quelli degli umani adulti.

Appositamente Carpenter infatti sceglie come interpreti Christopher Reeve, famoso per il suo sguardo languido e acquoso, dà un piccolo ruolo a Michael Paré, uomo dagli occhi blu, e si concentra soprattutto sulle sfumature espressive dello sguardo perversamente ambiguo, fatale e ipnotico di Kirstie Alley, che pare la sorella dell’altrettanto aliena e inquietante Meg Foster di Essi vivono. E, come nel caso di They Live, il film, se guardato attraverso quest’ottica, diviene profeticamente un’altra riflessione sul potere dello sguardo e della vista.

Non tutto funziona, e il film è indubbiamente un po’ attorcigliato su sé stesso, non prende mai davvero il volo, resta un po’ fiacco e strozzato.

Ma è elegantissimo, da ricordare anche per le presenze, invero soltanto accessorie ma comunque funzionali, della bella Linda Kozlowski (Mr. Crocodile Dundee) e di Mark Hamill (il mitico Luke Skywalker di Guerre stellari).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Stefano Falotico

 

 

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