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Villaggio dei dannati

Regia di John Carpenter vedi scheda film

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La recensione su Villaggio dei dannati

di OGM
8 stelle

Questo remake dell’omonimo film del 1960 – di cui, in alcuni punti, è addirittura una testuale citazione – trasforma, come spesso accade nella cinematografia di Carpenter, l’evento inspiegabile ed eccezionale in una diabolica provocazione etica, una destabilizzante sfida ai costumi morali della società. I precedenti vanno da Christine la macchina infernale, dove, insieme all’entusiastica fiducia nella tecnologia, si irride la cultura degli emuli di James Dean,  a Il seme della follia, in cui è l’innocuità della letteratura (commerciale) ad essere messa in dubbio; il discorso proseguirà poi con Cigarette Burns, un surreale monito contro le mortali insidie insite nell’amore per il cinema e con Il seme del Male, incentrato, sia pur in maniera artisticamente discutibile, sulla questione dell’aborto. Anche a quest’ultima si fa timidamente cenno in questo film, il che costituisce, certamente, un elemento di attualizzazione rispetto al film di Wolf Rilla che, al confronto, appare un’opera sospesa nel tempo, priva di quelle connotazioni contingenti e magari banali, di vita quotidiana, che Carpenter ama porre in primo piano: la festa di paese con i palloncini da gonfiare e i colori per pitturare con le dita, il corso di ginnastica prenatale, la kermesse ospedaliera del parto collettivo, il rito del battesimo di gruppo. I bambini “venuti dallo spazio”, più che un fenomeno da studiare, sono un problema da gestire, e le loro doti eccezionali interessano molto meno di quanto, piuttosto, preoccupino le loro azioni malvagie.  La versione carpenteriana del romanzo di John Wyndham è uno studio delle reazioni umane di fronte a un fenomeno enigmatico e pericoloso: i sentimenti sono il fragile tessuto su cui l’invasione aliena infierisce senza pietà, creando disperazione e scatenando laceranti dilemmi, legati al fatto che le creature infernali sono nate da viscere di donna. L’amore materno viene tradito, in ciascuno di quegli esseri assassini, da un cinico disprezzo e da una totale mancanza di innocenza: eppure esso sopravvive, malconcio e confuso, diviso tra rabbia distruttrice, impulsi suicidi e folle rimozione.  La violenza sanguinosa e spietata, incarnata da un gruppo di fanciulli, mette profondamente in crisi la nostra capacità di distinguere tra il bene e il male, di decidere tra vendetta e perdono, tra sottomissione  e rivolta: il paradosso paralizza la nostra capacità di giudizio, già di per sé prigioniera di un miscuglio di  istinto e ragione, di propensioni innate e convinzioni acquisite, creando quel blackout di cui il potere ipnotizzante dei bambini è l’efficace metafora. E la conclusione, come nei film citati, o ne La cosa, è sempre quella: a causare guai e a farci soffrire è, quasi sempre, il nostro approccio sbagliato  - forse troppo entusiastico o comunque semplicistico – a ciò che sfugge alla nostra comprensione.

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