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L'apparenza delle cose

Regia di Shari Springer Berman, Robert Pulcini vedi scheda film

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La recensione su L'apparenza delle cose

di mck
5 stelle

Questi Fantasmi!

 

Questa è la mia opinione su “Things Heard & Seen”, un film per il quale non tirerò in ballo l’oida (oiδα): "Ho visto, dunque so."

 

 

C’è un motivo principale per cui ho assistito a questo lavoro, ed è Rhea Seehorn (Kim Dexler in “Better Call Saul”), un’interprete quasi sempre molto brava, e del resto, tutto sommato, lo è anche in quest’occasione, ove risulta in campo per un minutaggio complessivo di circa un quarto d’ora (sulle quasi due totali, che comunque grazie alle buone prestazioni di alcuni attori, “persino” - ché in realtà è spess’alquanto veramente eccellente - il sovrautilizzato dal cinema italiano più scrauso - probabilmente ha sottoscritto un contratto capestro con Renzo Martinelli - F. Murray Abraham, passano leggere) e una decina di pose, fra cui la scena più scult di tutte, verso la fine, strutturata perseguendo un “didascalismo intuitivo/risolutivo” di un montaggio [della solitamente brava Louise Ford ("the Witch", "WildLife", "the Lighthouse"), qui affiancata dal più "embedded" Andrew Mondshein] da galera.

 


Poi, che altro dir d’altro: accantonando il significato (le cose che accadono e che conducono alla morale), non si capisce il senso, la necessità, il quid di un’opera simile (ché no, nonostante il sunto di partenza dell’impalcatura portante subitaneamente presentato ed accettato - i fantasmi e le case infestate esistono - non siamo dalla parti del magnifico “A Ghost Story”), e il motivo molto probabilmente non è da ricercarsi in “All Things Cease to Appear”, il romanzo di partenza (che non ho letto) di Elizabeth Brundage del 2016, tradotto e pubblicato da Bollati Boringhieri (e l’architettura del film è chiaramente letteraria: tutti i passaggi, le caratterizzazioni, le progressioni, gli stilemi e le svolte sono profondamente “letterarie”, e non è affatto un male, anzi, è la parte più “invitante”), che forse riesce addirittura ad essere perturbante, risultando appetibile sotto questo aspetto, quanto piuttosto nella riduzione - che (dalle poche pagine sfogliate) non ne estrae stile, atmosfera e poetica - fatta da Robert Pulcini e Shari Springer Berman, la coppia di registi e sceneggiatori ch’è in grado di dare il meglio di sé quando affronta ed utilizza vari elementi infra/inter-mediali…

[qui rappresentati preponderatamente dalla forma d’arte pittorica - tralascerò per amor di patria cinematografica ogni riferimento alla vita e alle opere del teologo, mistico, medium e chiaroveggente Emanuel Swendenborg (1688-1772) - e presenti lungamente, ma vanamente, lungo tutto il film, con gli apici collegati da un proiettore di diapositive, ma dicotomicamente distanti per riuscita filmica, e rappresentati da un riuscito prologo in slideshow, ancora ambiguo nell’oggetto della sua rappresentazione, da una del tutto fuori fuoco scena intermedia all’università, con la reiterazione dispettosa da parte degli spiriti buoni di “the Valley of the Shadow of Death” (1867) di George Innes (1825-1894), e da un finale infernalmente “bello”, ma completamente sterile: un tardivamente consolante maelström vendicativo, quand'ormai il male irreversibile ai danni della femmina è compiuto, che risucchia il maschio nell'Oceano Averno...]

…come in “American Splendor” (bio-pic dagli esordi all’affermazione del fumettista con incursione dell’amico e futuro graphic noveller Robert Crumb ) e “Cinema Verite” (metacinematografia documentaria sulla genesi/gestazione e la gestione/svolgimento di “An American Family” di Craig Gilbert), mentre in altre circostanze, quali “the Nanny Diaries” così come in questa, perde un - bel - po’ di forza ed urgenza (e interessante da questo PdV sarà assistere al prossimo loro “Party of the Century”).

 

 

“Quell’inverno si presero le mucche.” - E.Brundage

Ci sono altri due motivi per cui ho assistito a questo lavoro: Amanda Seyfried, e va beh, e poi Larry Smith (“Bronson”, “the Guard”, “Only God Forgives”, “Calvary” e il prossimo “the Forgiven”), il direttore della fotografia che debuttò in tal ruolo al fianco di Stanley Kubrick reggendogli le luci per “Eyes Wide Shut”, dopo aver fatto gavetta sui set di "Barry Lyndon" e "the Shining": orbene, un’altra similare grande occasione il regista ebreo del Bronx naturalizzato inglese dell’Hertfordshire la diede a John Alcott per “2001: a Space Odyssey” (il quale, in seguito, oltre che in “A ClockWork Orange”, dopo lavorò proprio in “Barry Lyndon” e “the Shining”), e la luce, così come gli arredamenti (le due pellicole, quella propriamente definita tale, su supporto analogico ai sali di nitrato d’argento, e quella digitale, su Codex ArriRaw, si svolgono entrambe nel 1980 in U.S.A., l’una in Colorado l’altra nello stato di New York), nelle scene nell’ufficio del co-protagonista, mi hanno immediatamente ricordato un altro ufficio, quello di Stuart Ullman in... sì... “the Shining”.

 


Ok, sono due uffici come tanti, con una porta e una finestra reciprocamente speculari e un arredamento fine anni ‘70, ma i movimenti di macchina della steadycam che portano lo spettatore ad entrarvi, e poi… quella luce… (In parte naturale, qui, perché la finestra è vera, e - vado a memoria - totalmente artificiale, in Kubrick, perché la finestra è "finta" e il set è interamente contenuto in un capannone degli studi londinesi di Elstree.) Sì lo so, sono in mood "Room 237" di Rodney Ascher...

Poi, s’è per questo, ci sarebbe anche un’ascia, altrove…

Volendo - ma sì, dai - si potrebbero pure fare i nomi di Shirley Jackson e Richard Matheson, però è soprattutto lo Stephen King meno risolto e compiuto, quello ad esempio di “Rose Madder”, che sorge alla mente. Oppure lo Zemeckis di "What Lies Beneath". Il paragone più appropriato è col recente “El Secreto de MarrowBone” di Sergio G. Sánchez.

Completano il cast, fra i nomi più rilevanti, Karen Allen e Natalia Dyer. Musiche di Peter Raeburn ("WoodShock"). Però quel che spicca è in coda: “Search for Life” dei Dirty Projectors. 

 

 

E questa era la mia opinione su “Things Heard & Seen”, un film per il quale non ho tirato in ballo l’oida (oiδα): "Ho visto, dunque so." 

* * ½ (¾) – 5.25

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Postilla.
Uno sbarbatello Immanuel Kant blasta il matusa Emanuel Swedenborg.

I filosofi si sono dimostrati spesso scettici nei confronti del paranormale. La stessa storia della filosofia può essere interpretata come la progressiva affermazione della ragione nella spiegazione delle vicende umane e il graduale superamento di ogni forma di irrazionalità. Essendo il soprannaturale elusivo a ogni seria indagine scientifica, non può dunque sorprendere che, dall’antichità a oggi, grandi pensatori abbiano scritto, in maniera anche sprezzante, di chiromanti, veggenti, astrologi e divinatori vari. Da Cicerone a Luciano, da Montaigne a Hume, da Schopenauer a Bergson, sono numerosi i documenti che affrontano il tema della credibilità del magico e dell’occulto, con spunti e riflessioni spesso illuminanti.

Raramente, però, i filosofi si sono dedicati a compiute indagini di fenomeni paranormali, limitandosi, per lo più, a poche osservazioni impressionistiche, spesso irritate dalla meschinità dell’argomento. Per rintracciare trattazioni più sistematiche bisogna scovare le opere cosiddette minori; quelle, per intenderci, che sono rinvenibili nelle note a pie’ di pagina dei manuali di storia della filosofia.

Non è sorprendete, allora, che una delle poche indagini filosofiche disponibili, I sogni di un visionario spiegati coi sogni della metafisica di Immanuel Kant, compaia tra gli scritti giovanili del pensatore tedesco e sia costantemente relegata tra i residui della sua produzione: più una curiosità intellettuale sulla via della maturità che un testo degno, di per sé, di interesse.

Eppure, l’operetta di Kant rappresenta un’importante testimonianza scettica su uno dei fenomeni maggiormente discussi a metà del ’700: il caso del mistico svedese Emanuel Swedenborg, le cui visioni continuano ancora oggi a far parlare gli appassionati del soprannaturale.

Scritti nel 1766, su sollecitazione della signora Charlotte Knobloch (quasi un book on demand), i Sogni sono un esame meditato degli scritti dell’occultista svedese, condotto da un punto di vista razionale. Swedenborg aveva pubblicato un’opera dal titolo Arcana Coelestia, che suscitava grande curiosità in Europa e in cui sosteneva di essere in contatto con gli spiriti dei defunti e di aver avuto da essi notizie sull’aldilà. Kant lesse molto scrupolosamente l’opera, composta da ben otto volumi, di cui i primi cinque pubblicati a Londra tra il 1746 e il 1758 (gli altri uscirono solo nel 1796) e scrisse i Sogni come confutazione scettica del suo contenuto.

L’eccezionalità dello scritto kantiano sta nel fatto che, per la prima volta nella storia della filosofia, un pensatore analizza meticolosamente l’opera di un sostenitore del soprannaturale, non liquidandola in maniera approssimativa, ma dedicandole un intero lavoro. Certo, Kant afferma più volte che, per lui, l’affaire Swedenborg è solo un passatempo, cosa confermata anche dal tono poco accademico dell’operetta e dall’irritazione con cui, a un certo punto della trattazione, interrompe la descrizione delle teorie di Swedenborg. Inoltre, sono evidenti gli interessi principali del filosofo di Königsberg, più rivolti alla metafisica che al soprannaturale.

Tuttavia, i temi affrontati dal mistico svedese - l’esistenza degli spiriti e, quindi, la sopravvivenza dell’uomo dopo la morte - non potevano essere sbrigativamente abbandonati, costituendo il problema centrale di tutte le religioni. Il fatto che Kant, allora considerato solo una promessa della filosofia europea, vi dedicasse attenzione, proprio quando avrebbe dovuto pubblicare lavori importanti per raggiungere il successo accademico cui aspirava, è già un’indicazione del rilievo del suo impegno. Inoltre, le visioni di Swedenborg avevano, ormai, acquisito lo status di fenomeno e venivano considerate con autorevolezza anche da importanti personalità dell’epoca.

Swedenborg, dunque, non era questione da poco. […]

Romolo G. Capuano - CICAP.org, 16/11/’06     

 

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Post Scriptum.

Dicevo... "C’è un motivo principale per cui ho assistito a questo lavoro, ed è Rhea Seehorn...".

Ed eccola qui, al Metropolitan Museum of Art o alla New-York Historical Society, che ammira un dipinto della Hudson River School... 

 

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