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È stata la mano di Dio

Regia di Paolo Sorrentino vedi scheda film

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La recensione su È stata la mano di Dio

di simonebulleri
9 stelle
 
TRAMA
1984. La famiglia Schisa, una famiglia napoletana come tante, vive al Vomero, e ci lascia assistere alla sua quotidianità, fatta di tante microstorie di felicità istantanea e malinconia protratta, su cui svetta, per tragicità, quella di zia Patrizia che fluttua sul baratro della follia, perché - pare - non può avere figli. C'è anche un gran fermento nell'aria, un fermento che tutte le altre storie risucchia e travolge: l'acquisizione da parte del Napoli calcio di Maradona. La grande gioia collettiva però lascerà il posto, nel cuore di Fabietto Schisa, a una tragedia privata che, obtorto collo, ristabilirà il senso delle cose e, soprattutto, delle priorità.
RECENSIONE
A 50 anni, Paolo Sorrentino arriva a fare i conti con il film della maturità, e dopo aver affrontato, più recentemente, il paganesimo, attraverso i barocchismi carnevalesco-felliniani (con più di un occhio a Ettore Scola) de La Grande Bellezza, e aver sviscerato criticamente il cristianesimo del Nuovo millennio, con l'onirismo estetizzante e decadente di The Young e New Pope, vira deciso verso una religione intimista più raccolta e famigliare.
Sorrentino mette perciò in luce il suo dolore autobiografico, un disquarto bruniano in continuo altalenare fra finito e infinito, fra chi anela il mare eppur lo teme, usando materialmente la luce caravaggesca di Napoli (ben restituita dalla fotografia di Daria D'Antonio), e gioca con le ombre dell'animo umano, offrendoci di danzare con lui sull'orlo del suo precipizio privato. E qui si vedrà chi accetterà la danza amara, e chi resterà al bancone col drink, ancora più amaro, in mano. E' durissimo piazzare la telecamera su certi fatti personali, e ancor più duro - dal punto di vista tecnico e artistico - è trasmetterlo senza disperdere niente, senza che ci sia una sola inquadratura che possa anche solo tradire, e non omaggiare, quel dolore. Sorrentino supera tutto, ha elaborato superbamente quello che c'era da elaborare, e infatti riesce ad arrivare e a piazzarsi nella retina per scendere - questa volta senza artifizi - giù, fin dentro l'animo. Anche i sorrentinismi, come il totemico 'munaciello', un Puck del folclore partenopeo meno verboso di quello scespiriano ma altrettanto equivoco e misterioso, o come 'l'appeso', che nei tarocchi indica una situazione difficile da sopportare, non sono gratuiti ma assorbiti dalla narrazione e assolutamente funzionali. C'è minor mostra del sé registico e più voglia di sostanza narrativa (che significa anche fare pace con dolly, carrelli, zoom, ralenti, cammelli, suore nane che fumano etc), insomma, in questo Sorrentino giunto nel mezzo del cammin di sua vita (numerose e pertinenti le citazioni dantesche).
La squadra di attori serve da par suo. Servillo mostra di saper stare sullo sfondo, presente pur nell'assenza, affiancato da una Teresa Saponangelo tesa ed energica. Ma la vera scoperta è il giovanissimo Filippo Scotti che porta sulle spalle, con disinvoltura e intensità, il peso di Alter Ego autoriale; lo scambio finale con Ciro Capano, il regista che gli dà la scossa finale, risvegliandolo dalla tristezza morbosa, è da antologia ("Fabie' non ti disunire mai!"). Illumina tutto la procacità solare di Luisa Ranieri, musa luminosa e anima sofferente, bella da commuovere. Bravissimi anche i comprimari, ricordiamo Renato Carpentieri e Betti Pedrazzi.
Montaggio perfetto del comprovato Cristiano Travaglioli e musiche soavi di Lele Marchitelli.
Un film sul dolore che squarta e sulla gioia che ricompone, sulla forza del futuro che - nonostante tutto - spinge sempre in avanti, comunque. E un bellissimo omaggio ai genitori che continuano a lavorarti dentro. Da vicino e da lontano.
Un proverbio indiano recita: se non sai dove stai andando volgiti per vedere da dove vieni. Sorrentino lo ha tradotto in immagini.
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