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Magnolia

Regia di Paul Thomas Anderson vedi scheda film

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La recensione su Magnolia

di AtTheActionPark
7 stelle

«A quasi vent’anni di distanza, dopo il minimalismo blue-collar di Carver, il minimalismo glam-metropolitano di Jay McInerney e Bret Easton Ellis, il minimalismo pop e naif di Douglas Coupland e le altre varie declinazioni e ramificazioni del fenomeno, il romanzo “massimalista” sembra tornato di moda. Da Infinite Jest di David Foster Wallace all’Opera struggente di un formidabile genio di Dave Eggers […] la nuova narrativa anglo-americana torna ad amare il Grande Romanzo, gli intrecci di piani narrativi, il linguaggio pirotecnico, la parodia pop […]»

Seppur si stia parlando di letteratura, questo estratto dell’ottima introduzione all’Opera galleggiante di John Barth di Martina Testa sembra quasi descrivere il panorama cinematografico statunitense di fine secolo scorso. Bastarebbe sostituirne i nomi: anziché Ellis o Carver, si potrebbero citare i vari Jim Jarmush e i Joel & Eathan Coen, Gus Van Sant e il primissimo Soderberg. Un vero e proprio “groviglio” di cineasti indipendenti, poco conformi al mercato dei nascenti blockbuster. Ma sul finire del secolo le cose cambiano decisamente. E in questo panorama in continua mutazione, il giovane regista Paul Thomas Anderson pensa davvero in grande, realizzando un’opera che si pone a metà strada tra l’estetica indie, il racconto mélo e il gigantismo della grossa produzione hollywoodiana. Dopo opere ancora incerte (Sydney) o in fase di sperimentazione (Boogie Nights), con Magnolia Anderson mostra decisamente le carte - ovvero il suo smisurato talento e la sua altrettanto smisurata ambizione. Già assistente di Robert Altman, Anderson mutua il modello di America oggi – il grande caos carveriano sfrullato masticato e sputato – e lo fa confluire in un film di chiaro stampo massimalista. Un fluviale romanzo epico (postmoderno) sulle disillusioni americane di fine secolo.     
 
Anderson intreccia più storie, cercando di mantenere uno sguardo dolorosamente univoco. Esiste, infatti, nel film un file rouge abbastanza dichiarato: quello del perdono. Magnolia si può, a ragione, considerare un film di matrice cristiana. Nelle ventiquattr’ore che costituiscono il tempo diegetico del film, tutti i personaggi devono confrontarsi con il proprio passato («Noi possiamo chiudere col passato ma il passato non chiude con noi»). Le storie che costiuiscono il nucleo pulsante del film non sono altro che confessioni di donne e di uomini che non trovano più la forza di ingannarsi. Attraverso il montaggio alternato e i numerosi piani-sequenza, P. T. Anderson crea una rete inestricabile di rapporti tra i personaggi che, quando non sono motivati da un principio di causa ed effetto, hanno nel caso (nel destino?) la propria origine. Un crescendo continuo, che sfocia nel celeberrimo finale.
 
Nel momento massimo di tensione, quando tutto sembra protendere al peggio, ecco l’intrusione dell’elemento esterno. La biblica pioggia di rane (realizzata con grande gusto della verosomiglianza) s’abbatte sulle esistenze di tutti, indifferentemente. Un evento che sembra non volere spiegazioni (nessuno, alla fine, si interrogherà dell’evento). Un vero e proprio deus ex machina senza significato.
Eppure, dopo la pioggia, tutti si ricompatta. Dopo l’evento che coinvolge le esistenze di tutti, Magnolia si chiude nella speranza. Su di un sorriso che segue tutte le lacrime versate, da occhi e cielo, nel corso del film.

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