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Roma ore 11

Regia di Giuseppe De Santis vedi scheda film

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La recensione su Roma ore 11

di maghella
8 stelle

“Roma ore 11” è stato girato sessant'anni fà o ieri? Rimango sempre di sasso quando mi accorgo di quanto possa essere grande il nostro cinema italiano, quello dei maestri che hanno saputo cogliere non solo il semplice attimo, come improvvisati impressionisti dell'epoca, ma che hanno saputo cogliere il carattere, il disagio, lo spirito che è proprio del nostro essere, del modo tutto italiano di affrontare i problemi. Proprio come oggi, nel 1951, quando l'Italia stava cercando di ritornare ad una parvenza di normalità dopo una guerra che l'aveva messa a terra, il lavoro era il bene più ambito, il posto fisso, la sicurezza o la speranza di una vita migliore.
200 donne rispondono ad un annuncio sul giornale per un posto da dattilografa presso un ragioniere, il colloquio (o esame come viene chiamato dalle donne) ha luogo nell'ufficio che si trova in un vecchio palazzo del centro di Roma. Le donne assiepate sulle scale cominciano a litigare per una prepotenza di una di loro, che con un “trucco” riesce a passare avanti a tutte, la scala cede e fa crollare tutta la rampa con le donne. Tragedia, feriti, una grave che morirà in seguito. L'ospedale dove le donne erano state ricoverate dopo il crollo chiede il conto di 2.300 lire al giorno per le cure, ovviamente tutte andranno via indignate, tranne quella che muore.

Il film si ispira ad un fatto di cronaca realmente accaduto a Roma l'anno precedente, di cui si era occupato per una inchiesta giornalistica su l'Unità Elio Petri, allora giornalista, che si prestò come aiuto regista per il film, iniziando così accanto a De Santis la sua carriera impegnata di cineasta.
La prima parte del film è un piccolo gioiello: la moltitudine di donne che come tante formichine si arrampicano su questa montagna-palazzo, scambiandosi le loro esperienze di vita, i loro caratteri, le loro speranze.
De Santis ci mostra l'Italia del dopoguerra attraverso i volti di tutte le donne: prostitute, cameriere (o “serve” come erano chiamate allora le ragazze di campagna che andavano a servizio dai parenti più fortunati di città), madri di famiglia, mogli con i mariti disoccupati, nobili cadute in disgrazia, giovani di belle speranze, “bruttine” che sanno che il lavoro è solo per “bellissime” (come specificato nell'annuncio) ma che comunque ci provano (“almeno ci provo”), tante donne ma tutte ben distinte nella loro personalità, ogni volto è una storia a sé. Il crollo e tutti quei volti per un terribile momento diventano uno solo, quello della disgrazia, così come la guerra aveva unito ricchi e poveri, belli e brutti, giovani e vecchi, il crollo aveva impastato nuovamente quelle vite, un crollo dovuto alla disperazione di conquistarsi un posto fisso (un nuovo tipo di guerra) e non per un bombardamento da parte dell'invasore.

Ma proprio come con la fine della guerra, dopo i primi soccorsi, i volti ritornano ad essere distinti, le vite delle donne ritornano ad essere quelle di prima, passato il pericolo di morte, uscite dall'inferno ognuna cerca di riscattarsi ricercando le proprie povere cose fra le macerie: un cappellino, una borsetta, una valigia.
Anche l'ospedale con i primi soccorsi appare come una terribile presa in giro (proprio come l'annuncio per un solo posto di lavoro per tutte quelle disperate) quando viene comunicato alle ferite e ai loro parenti che c'è un conto salato da pagare per il ricovero e le cure (“ma se stavamo morendo per avere un posto di lavoro, come possiamo pagarci l'ospedale?”).
Fuori si cerca un responsabile, un colpevole da dare in pasto ai media, che già nel 1951 apparivano invadenti nelle corsie di ospedale, con i microfoni della radio che cercavano patetiche storie di vita vera (ma quanto è vicina a noi questo film, sembra che non sia cambiato nulla ), e le giovani donne non si sgomentano a rilasciare testimonianze, a raccontare di sé, a improvvisare canzonette, già allora il quarto d'ora di celebrità, di reality, era molto ambito.
La donna che aveva scatenato il litigio viene ricercata come capro espiatorio per una colpa da attribuire, dato che non può essere il costruttore, non può essere il proprietario, non può essere il ragioniere che aveva pubblicato l'annuncio, forse può e deve essere quella disgraziata che con la “furbizia” della disperazione si era fatta largo tra tutte, per poi riuscire a scappare un attimo prima del crollo. Non sarà così per fortuna, la donna pagherà sicuramente con il suo senso di colpa infinito, ma non con la giustizia. Intanto la stampa preme per cercare un responsabile, una storia da raccontare. Fuori dal palazzo crollato c'è ancora una ragazza, che a notte inoltrata rimane fuori dal portone aspettando il mattino dopo: “il posto non è ancora stato assegnato, forse domani c'è speranza”.

Sì, decisamente un film che potrebbe essere stato girato ieri, un film che ho visto assieme a molte persone in una rassegna cinematografica, che è rimasta ammutolita davanti a tanta attualità dopo sessant'anni. Anche De Santis è stato “ammutolito” per quasi trent'anni, dopo il 1972 non ha girato più alcun film, oggi rimane come un grande regista, un artista dallo sguardo lungo.

Cast ovviamente di eccellenza: Lucia Bosé di una bellezza quasi fastidiosa, Massimo Girotti e il suo sguardo disilluso; Lea Padovani una triste prostituta; Delia Scala la giovane servetta che si vuole riscattare cercando di diventare una dattilografa; Paola Borboni la madre che cerca di non far passare avanti alla figlia le altre “più furbe”, e un immenso (come sempre) Paolo Stoppa impiegato statale, la cui frase “aumentate gli stipendi agli impiegati” viene censurata alla radio, la stessa radio che manda in onda le note di “Amado mio” cantata dalla figlia ferita.

Un film potente.

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