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La signora in bianco

Regia di Nicolas Roeg vedi scheda film

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La recensione su La signora in bianco

di AtTheActionPark
8 stelle

Insignificance”, ovvero insignificante: ciò che si ritiene irrilevante. Questo, il bellissimo e programmatico titolo originale de La signora in bianco, opera  alquanto dimenticata ma tutt’altro che minore della filmografia di Nicolas Roeg. Un esperimento bizzarro – poteva essere altrimenti, un film realizzato dal più eccentrico dei registi inglesi? -, eppure incredibilmente controllato: forse tra i risultati più interessanti dell’opera di Roeg. “Controllato” perché riesce a non soccombere sotto il peso del forte impianto teatrale (quattro personaggi; recitato quasi esclusivamente in interni), ma riesce a imprimere una propria poetica, innanzitutto visiva, realizzando una criptica riflessione (ma c’è poi veramente?) sull’icona pop e sulla celebrità.
Nella New York degli anni Cinquanta, in un lussoso hotel, avviene l’impossibile incontro tra quattro celebrità: Joe di Maggio, il senatore McCarthey, Marilyn Monroe e Albert Enstein. Nessuno però, viene mai chiamato col proprio nome. Sono rispettivamente: il battitore, il senatore, l’attrice e lo scienziato. La loro forte riconoscibilità iconica, soprattutto per quanto concerne Marylin e Einstein, rende quindi inutile (irrilevante) l’uso del nome proprio, sottolineando la forte rappresentabilità attraverso uno svuotamento identitario.
La signora in bianco è un film postmoderno, non tanto per la sua vicinanza al Storia del Cinema – il film inizia sul set de Quando la moglie è in vacanza. Piuttosto, l’approccio di Roeg (e dell’autore del testo teatrale Terry Johnson) sembra rifarsi alla romanzo postmoderno. Il miscuglio quasi stridente di cultura pop, le numerose digressioni incentrate su questioni specifiche in materia scientifica, non possono che richiamare l’universo postmodernista e apocalittico di Thomas Pynchon. Ascoltare Marilyn e Enstein che discutono della forma dell’universo alle tre del mattino in un’anonima camera d’hotel potrebbe benissimo essere frutto di un paradosso pynchoniano, uscito dalle pagine dell’Incanto del lotto 49 o dell’Arcobaleno della gravità. Persiste la teoria del complotto, diluita al limite dell’inconsistenza, attraverso le pressioni del senatore McCarthey (kubrickianamente ossessionato tanto dal comunismo quanto dall’impotenza sessuale) nei confronti di Einstein. È assolutamente inconsistente (ancora, l’insignificanza), la storia stessa che (non) racconta La signora in bianco: tutte spinte narrative che si spengono velocemente. Flashback e flashfoward (quasi delle premonizioni apocalittiche) che si risolvono in un nulla di fatto.
Anticipando il Don De Lillo di Underworld, Roeg realizza un’opera sull’immaginario americano. Un carosello di volti, di copie e di superfici, liquido e impermeabile, che nelle sue continue allusioni non sembra portare da nessuna parte. Oppure forse, dove conduce, è totalmente irrilevante. O, per meglio dire, insignificante.

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