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My America

Regia di Barbara Cupisti vedi scheda film

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La recensione su My America

di Spaggy
8 stelle

"We the People of the United States, in Order to form a more perfect Union, establish Justice, insure domestic Tranquility, provide for the common defence, promote the general Welfare, and secure the Blessings of Liberty to ourselves and our Posterity, do ordain and establish this Constitution for the United States of America".

 

Scritto nel 1787, il preambolo alla Costituzione degli Stati Uniti d’America sancisce che la nazione appena formata, per una perfetta unione, stabilisce la giustizia, assicura la tranquillità domestica, provvede alla difesa, promuove il benessere generale e garantisce la sacrosanta libertà ai contemporanei e a quelli che verranno nel corso degli anni. La prosperità della nazione, della “nostra America”, era dunque lo scopo primario dei padri costituenti. Ma 233 anni dopo cosa è rimasto di quelle parole?

Parte da questo interrogativo Barbara Cupisti, regista toscana da tempo trasferitasi negli States, per offrire un ritratto di quel sogno americano che si è trasformato per molti in incubo. My America, sua fatica presentata fuori concorso al 38° TFF in una versione ridotta di 90 minuti ma vista da chi scrive nella sua versione originaria da 123’, presenta quattro differenti capitoli incentrati sulla disgregazione delle promesse che la carta costituente prometteva di mantenere.

scena

My America (2020): scena

Il primo capitolo punta l’attenzione sulla propensione tutta statunitense alla difesa personale. Secondo le statistiche esistono 102,5 armi da fuoco per cento abitanti, un numero stratosferico di pistole, fucili et similia in mano non sempre a soggetti psicologicamente stabili. A dimostrazione dell’uso scorretto delle armi sono le molte e purtroppo tante sparatorie nei licei. Partendo dalla commistione di immagini amatoriali girate con uno smartphone e sequenza patinate provenienti dalle emittenti all news, Cupisti si concentra sulla sparatoria avvenuta a liceo Marjory Stoneman Douglas a Parkland nel febbraio del 2018. Costata la vita a 17 persone, la sparatoria è a oggi la più sanguinosa avvenuta in un contesto scolastico e ha portato a diverse manifestazioni di protesta culminate nella nota March of Our Lives, svoltasi a Washington un mese dopo, a cui la stessa regista ha preso parte. Gli eventi hanno inoltre spinto l’adolescente Carlill Pittman a fondare l’associazione GoodKids Madcity, tramite cui si occupa di prestare anche i primi soccorsi in caso di stragi similari. Le ragioni che spingono a tali spargimenti di sangue sono le più disparate e non possono di certo liquidarsi ricorrendo sempre a spiegazioni psicologiche o sociologiche. Ciò che invece differenze non presenta è il dolore provato dalle famiglie delle vittime, come sottolineano le poche ma oculate testimonianze scelte. Emerge dunque come gli Stati Uniti abbiano accumulato un primo ma clamoroso fallimento: a nessuno sono assicurate giustizia e difesa pubblica.

 

Il secondo capitolo, inedito al momento, si concentra su una piaga apparentemente invisibile: la dipendenza da oppioidi. Per capire quanto grave sia il problema, basti pensare che, mentre la guerra in Vietnam ha provocato circa 58 mila morti, la morte per overdose da oppioidi ne lascia per strada circa 68.500. La tossicodipendenza nasce anche in questo caso in seguito a svariate motivazioni. Spesso si tratta di una conseguenza di una cura che, nata per far star bene, è degenerata e ha provocato solo un’illusione di benessere. Non è facile individuare chi ne soffre, sovente si nasconde dietro le pareti di una casa benestante, e non è propenso ad accettare l’idea di avere un problema da risolvere. A cercare di aiutare chi ne soffre è quasi sempre l’operato di alcuni volontari che, anche loro impegnati in percorsi di riabilitazione, hanno conosciuto i farmaci da vicino. È il caso, ad esempio, di Kristen e Scotty che nella Contea di Montgomery si muovono in prima persona, anche di porta in porta o di carcere in carcere, per occuparsi di chi non vuole e non deve essere giudicato. Le statistiche parlano chiaro: è grazie al contatto diretto e alla comprensione degli operatori che si possono ridurre del 49% i decessi. La promozione del benessere, dello star bene, è dunque un secondo fallimento di non poco peso per una nazione che si definisce da sogno.

 

Il terzo capitolo di My America lascia la provincia per catapultarsi a Los Angeles, la città sfavillante in cui i sogni si trasformano la realtà. Hollywood, Beverly Hills, Venice Beach o Santa Monica, sono nomi di zone che risultano familiari a tutti quanti. Sono il simbolo del successo, della fama, del potere e della conquista. In pochi al mondo sanno invece cosa sia Skid Row. Quartiere a due isolati dalle luci della ricchezza, Skid Row ospita una delle più grandi comunità di homeless degli Stati Uniti. È difficile stabilire a priori perché ci si ritrovi senza un tetto sotto cui stare. Quasi nessuno sceglie di diventare barbone, di dormire per terra, di vivere in precarie condizioni igieniche e di sentirsi rifiutato dal mondo intero. Basta la rata di un mutuo non pagato o un rapporto di lavoro bruscamente interrotto a far finire per strada coloro che non hanno le spalle economicamente protette. Nella zona sono tanti i volontari che prestano il loro soccorso: l’Union Rescue Mission, la Alexandra House o le comunità di cittadini che dietro la politica del “Condividi un pasto” ogni notte si avvicinano agli homeless per portar loro acqua e cibo. Commuovono le testimonianze degli operatori: servendo circa 200 pasti a notte, riceviamo in cambio l’esperienza della compassione, la stessa che la nazione intera disconosce. Gli Stati Uniti contano circa 500 mila senzatetto, a cui negano dignità ma non uccidono la speranza. Non avere casa non significa non avere speranza, dichiara uno dei giovani finito per strada per continuare a inseguire un sogno.

 

Il quarto e ultimo capitolo appare infine il più universale a livello politico. Cupisti non può fare a meno di gettare lo sguardo sulla situazione degli immigrati che clandestinamente tentano ogni giorno di varcare i confini meridionali. Le disastrose politiche trumpiane hanno imposto limiti civili e morali che hanno scritto la parte più vergognosa e triste della storia americana moderna, come sottolinea Alvaro. Colombiano arrivato negli States legalmente poco più che adolescente per motivi di studio, Alvaro realizza croci da piantare nei punti in cui sono stati ritrovati senza vita gli immigrati che hanno oltrepassato il confine e si sono ritrovati davanti l’asprezza del deserto, il sole cocente e la mancanza di acqua e ombra. A ogni croce allega un puntino rosso, in ricordo di una vita fin troppo presto spezzata. Nell’area in cui vive sono scomparsi circa 3 mila immigrati, che hanno lasciato famiglie in patria per vedere i loro sogni morire in un pugno di sabbia. Di questi, 2 mila sono stati identificati e “restituiti” ai loro affetti. Mille invece non hanno ancora un nome e i volontari che raccolgono le telefonate dei familiari rimasti in patria cercano di incrociare le richieste accolte con i dati del dottor Greg Hess, anatomopatologo con il triste compito di catalogare i cadaveri. A qualche chilometro di distanza dal confine, a Nogales, nel Messico settentrionale, l’associazione dei Samaritans si occupa invece del rifugio La Roca, uno dei pochi che ospita i richiedenti asilo provenienti soprattutto da Honduras, El Salvador e Guatemala. La gente non ha idea di quello che accade qui, recitano le parole di chi il dolore lo vive tutti i giorni in prima persona. E la situazione è divenuta ancora più grave per via della decisione del governo Trump di strappare i bambini dalle loro famiglie, aprendo un’ulteriore piaga. È qui, in queste terre, che il sogno americano ha smesso di essere tale ed è diventato incubo, genocidio muto.

scena

My America (2020): scena

 

Barbara Cupisti non interviene mai all’interno delle sue storie. Lascia alle immagini il compito di parlare, commentare, testimoniare e denunciare. Non riprende miserie ma lascia spazio ai volti, alla dignità di chi pur vivendo in difficoltà ha il coraggio di parlare, di apportare la propria esperienza e di renderla universale. Ogni storia è diversa ma uguale, colorata dal disgregamento di una nazione in cui i ricchi sono ricchi e i poveri sono ancora più poveri, rifiutati e relegati ai margini. Come polvere da nascondere, vivono nell’ombra di ciò che invece avrebbe dovuto essere, senza la possibilità di salire quel gradino che corrisponde al nome di diritti garantiti.

 

Le immagini nitide di My America sono da custodire negli archivi di Storia. Per denunciare, non occorre sporcare artificialmente le riprese, così come non occorre far domande o mettere a disagio e imbarazzo l’interlocutore. Con la delicatezza che da sempre contraddistingue il suo operato, Cupisti rimane un passo indietro, non appare mai in scena e lascia che la sua camera diventi uno specchio per chi si racconta, libero di sorridere, sperare o piangere, senza indicazioni dall’esterno.

 

L’ottimo montaggio della ritrovata Francesca Mor, storica collaboratrice della regista, rende il discorso fluido. Si evitano le storie intrecciate e si procede per quadri autoconclusivi. Qualcuno ha asserito che si tratta di una scelta didascalica. Invece no: la scelta del montaggio lineare restituisce il senso di denuncia che le immagini hanno insito. Non servono gli effetti speciali o i fuochi di artificio per mantenere desta l’attenzione dello spettatore, cullato dalle musiche soft, incisive ma mai invasive con cui Tommaso Gimignani ha scelto di sottolineare il dramma. Sì, perché è un dramma dover constatare che l’America così come l’abbiamo sognata non esiste più.

 

Spesso un dubbio mi attanaglia. Se Cupisti si fosse chiamato Ugo e non Barbara ne parleremmo oggi come di un documentarista da Oscar, in grado di cogliere con il suo sguardo critico sfumature che la stessa realtà fatica ad accettare.

scena

My America (2020): scena

 

L’America non c’è
hanno comprato anche le stelle
si vende solo polvere
che nasconde l’orizzonte

Ma l’America cos’è?

(Anna Oxa, L’America non c’è).

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