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La persona peggiore del mondo

Regia di Joachim Trier vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su La persona peggiore del mondo

di Speusippo
8 stelle

Herbert Nordrum, Renate Reinsve, Anders Danielsen Lie

La persona peggiore del mondo (2021): Herbert Nordrum, Renate Reinsve, Anders Danielsen Lie

 

Tra l’Italia dei tardi anni Settanta che vive nei film di Nanni Moretti e la Norvegia del XXI secolo che appare nei lavori di Joachim Trier non esistono congiunture: si tratta di microcosmi audiovisivi appartenenti a diverse regioni dello spazio cinematografico. Tuttavia, accostare i due registi non significa necessariamente tentare un’impresa degna del più folleggiante tra gli alchimisti. È questione di lenti: più alta è la risoluzione, più elevata è la possibilità di comprensione. Quale, allora, il fondamento del binomio proposto? Per ragioni inevitabilmente differenti, tanto Moretti quanto Trier hanno prodotto film dall’afflato generazionale: in tale carattere alloggia l’affinità capace di approssimarli. Nel caso di Moretti, pare sufficiente pensare a lavori come Ecce Bombo (1978), che colse con inconfondibile sarcasmo le irrequietezze di quanti appartennero a una certa generazione e a una certa stagione politica. Nel caso relativo a Trier, il film cui rivolgere le attenzioni è La persona peggiore del mondo (2021), che si configura come il terzo tassello della ‘Trilogia di Oslo’ – iniziata nel 2006 con Reprise e proseguita nel 2011 con Oslo, 31. august. Candidato a Cannes per la Palma d’Oro, La persona peggiore del mondo può essere considerato come l’episodio di maggior successo della trilogia: fatto, quest’ultimo, che non possiede una mera valenza storico-materiale. Che il film in questione abbia ricevuto candidature e premi in sedi tanto variegate – dal già menzionato Festival di Cannes ai Premi César, dagli Academy Awards ai BAFTA, fino ai Premi del Sindacato belga della critica cinematografica (UCC) – pare un indizio a favore della tesi enucleata in precedenza. Qualcosa, all’interno delle immagini e delle parole di cui si compone il film, si è rivelata capace di compiere un trasversale viaggio tra le molteplici sensibilità del mondo occidentale, incontrando ovunque segni di assenso e condivisione. Il culmine è stato raggiunto a Cannes, con la vittoria del premio per la migliore interpretazione femminile conseguita da Renate Reinsve: risultato pienamente meritato, se si considera che la prova attoriale realizzata dalla stessa Reinsve ha reso con compiutezza il personaggio in cui si condensano con maggiore intensità gli elementi che strutturano l’impianto portante del film.

 

La vicenda sulla quale insiste la sceneggiatura elaborata dal regista e da Eskil Vogt – che ha collaborato alla stesura di tutti i film diretti da Trier fino ad oggi – è caratterizzata da una protagonista cui ben si attaglia il motto che Jules Verne (1828-1905), più di un secolo fa, associò alla sua invenzione di maggior successo, ossia il Nautilus comandato dal terribile Capitano Nemo: “Mobilis in mobile”. Julie (R. Reinsve), all’inizio della narrazione, è una brillante studentessa di Medicina che frequenta l’Università di Oslo. Poi, troncata la relazione sentimentale del periodo, Julie decide di studiare Psicologia. Nuova relazione sentimentale. Successivamente, Julie smette di dedicarsi alla mente e passa alla Fotografia. Nel contempo, inizia a lavorare in una libreria e conosce Aksel (A. Danielsen), acclamato graphic novelist con il quale intraprende una convivenza. Arriveranno i litigi, gli scontri tra opposte prospettive esistenziali, il tradimento, la figura di Eivind (H. Nordrum), la malattia di Aksel, e un fitto succedersi di dialoghi, rivelazioni, consapevolezze, straniamenti, fragilità. Fino allo scioglimento, che veicola in forma narratologicamente non eccelsa una visione che possiede le virtù tipiche delle sintesi di ampio respiro. Imperfetta, dunque. Ma ben centrata.

 

Prima di spendere alcune parole intorno ai personaggi che animano il film e ai significati che lo stesso riesce a comunicare, pare opportuno soffermarsi sulla sostanza visiva che nel perimetro dello schermo materializza la vicenda sopra riassunta. La fotografia, curata per la prima volta da Kasper Tuxen e non da Jakob Ihre (responsabile della fotografia di tutti gli altri lavori di Trier), conduce lo spettatore all’interno di una Oslo dalle tinte neutre e naturali, talvolta segnate da patine opacizzanti o da volute imperfezioni nella tessitura cromatica  dell’immagine. L’esito complessivo, soprattutto se considerato in relazione ai movimenti perlopiù delicati ed essenziali della macchina da presa, sembra alludere a una percezione del reale dal carattere immediato e quotidiano. Non si tratta di un’ordinarietà qualsiasi, ma di un immaginario sintonizzato sulle forme qualitativamente familiari all’occhio della generazione cresciuta tramutando in ideal-tipo, più o meno conscio, il panorama estetico forgiato da colossi della tecnologia come Apple. Di qui, evidentemente, la trasversalità del reame visivo in cui Trier ha collocato la vicenda di Julie: l’alfabeto iconografico con cui parla la Oslo ritratta nel film traccia un confine ben riconoscibile, una linea in grado di significare in maniera perspicua le coordinate legate al tempo – inteso come congerie che informa e s’informa di quanti la abitano – della protagonista. Non esistono orpelli, se si eccettua qualche sparuta decorazione: si pensi, a titolo esemplificativo, alla sequenza in cui Aksel, seduto sul bordo del proprio letto d’ospedale, finge di suonare la batteria mentre ascolta della musica con le proprie cuffie; oppure alla fiabesca scena in cui Julie, ormai stanca della propria relazione, blocca il tempo con un semplice interruttore e corre da Eivind, in una Oslo magicamente cristallizzata, per concedersi al loro fiorente amore. Il resto è uno sguardo che accoglie la realtà mantenendosi entro un quadro visuale fatto di equilibri in cui si coniugano la ricerca di regolarità e la scelta di una levigatezza piana, pacatamente disadorna.

 

All’interno della materia visiva descritta si anima la storia della già citata Julie, protagonista alla quale si affiancano due personaggi di rilevanza non secondaria. Sostenere che la chiave interpretativa dell’opera risieda nella figura di Julie non è errato tanto quanto errato non è affermare che il film individui il proprio centro nel triangolo composto da Julie, Aksel ed Eivind. Nel secondo caso, la mente corre ad alcuni romanzi di Henri-Pierre Roché (1879-1959): in particolare, pare lecito pensare al celeberrimo Jules e Jim (1953), da cui François Truffaut (1932-1984) trasse l’omonima pellicola. Curiosamente, sia il film di Trier sia il testo di Roché risultano internamente organizzati in capitoletti di breve estensione e di notevole compattezza, con voce narrante a focalizzazione di grado zero. D’altro canto, ciò che maggiormente disgiunge le opere in esame alberga nel cuore dei due triangoli, in apparenza sovrapponibili, che strutturano le vicissitudini narrate. Julie, infatti, nulla possiede della ninfatica essenza che permea la turbinosa figura di Kathe, acme di quella «morale estetica del tutto nuova» – per riprendere le parole di Truffaut – sulla quale Jules e Jim scelgono, simili a devoti adepti, di orientare le proprie esistenze: posseduti da un ossessionante, indecifrabile, logorante sorriso. Julie è il vivido emblema di ben altro tempo e di ben altra generazione. Il suo femminismo non è l’esito di un processo, ma una dichiarazione i cui presupposti non richiedono esame: un segno che non postula parole, proprio come i lunghi capelli dei «capelloni» descritti da Pier Paolo Pasolini  (1922-1975). Le sue scelte di studio e carriera non accettano valutazioni di matrice efficientistica od utilitaristica: nell’epoca post-pandemica caratterizzata da fenomeni sociologici come il quiet quitting, ciò che Julie ricerca non è una progressione da contrapporre ad astrazioni di segno negativo quali l’Incertezza. Ciò che Julie ricerca, piuttosto, è una risposta che possa contribuire alla costruzione, costantemente in fieri, di un orizzonte esistenziale in cui soltanto un pluralistico incontro tra complessità può condurre a stadi di serenità. Non è casuale, allora, il fatto che Julie, nel proprio triangolo, non rappresenti affatto una divinità volubile, totalizzante e sanguinaria come Kathe. Julie sta nel proprio tempo: mobile tra cose mobili, in una Oslo in cui non accadono prodigi o s’insinuano misteri – in questo senso, la differenza che intercorre tra La persona peggiore del mondo e la precedente fatica di Trier, ossia Thelma  (2017), risulta palpabile. Julie tenta le strade della vita, affronta e rigetta la facilità delle convenzioni, accoglie tanto la gradevolezza dello smarrimento quanto la brutalità dell’auto-affermazione, assorbe e rilascia la morte, non teme l’inebriamento e si lascia eccitare dalle circonvoluzioni dell’inconscio. Infine, siede a una scrivania, intenta alle proprie fotografie. Ma in tale gesto, tanto sospirato da Aksel quando la malattia gli impedisce di dedicarsi al lavoro che ha scandito la sua intera esistenza, è ben difficile pensare che Julie abbia scoperto una risposta permanente, un punto pieno. È una tra le molteplici soluzioni offerte dall’irrefrenabile scorrere della vita: soddisfacente, ma non esauriente. In fondo, l’intervento di un tanto imprevedibile quanto tragicomico clinamen è sempre dietro l’angolo; anzi: al di là della finestra, come quando Julie scorge Eivind, in passato contrario alla paternità, con una figlioletta tra le braccia: la sua compagna, ora, è proprio l’attrice cui Julie ha dovuto dedicare un servizio fotografico.

 

Persino la colonna sonora del film, orchestrata con intelligenza da Ola Fløttum, in sé contiene qualcosa di generazionale: Julie, verosimilmente nata tra la fine degli anni Ottanta e  i primi anni Novanta, è una esponente della c.d. ‘Generazione Y’ (ossia la generazione dei Millennials, nonostante l’uso scorretto del termine da parte dei media), che costituisce la prima generazione ad aver potuto accedere con diffusa facilità a un vastissimo insieme di risorse musicali: si pensi, in questo senso, a piattaforme come Napster o iTunes. Non sorprende, allora, la poliedrica fluidità con la quale i brani selezionati da Fløttum si inseriscono tra le immagini del film: sintomo di una percezione della musica radicalmente diversa da quella che Aksel, di una generazione più anziano rispetto a Julie, rivendica per sé. Aksel, che nei capitoli conclusivi del film si propone come contrappunto dolce ed irrequieto alle cose che strutturano il tempo esistenziale di Julie, rappresenta la musica materiale, fatta di sterminate collezioni di CD o dischi in vinile: rappresenta, più generalmente, un tempo che cede il passo, ma che non obbligatoriamente risulta incapace di comprendere. Se è vero che Aksel, nel nono capitolo, diviene vittima di un massacro mediatico operato con efferatezza da chi si è piegato acriticamente a un linguaggio nuovo e distante, è altrettanto vero che proprio Aksel, in alcuni frangenti, riesce a capire Julie più di quanto non vi riesca Eivind, il quale è anagraficamente prossimo a Julie e nel contempo incapace di avvicinarsi alla sua sensibilità più profonda. Forse è nella figura di Aksel, tra le più toccanti e meglio costruite dell’opera, che si annida una trasposizione della condizione rapportabile a Trier e Vogt: considerato che entrambi sono nati nel 1974, pare evidente che lo sforzo tramite il quale sono riusciti a elaborare un personaggio come quello di Julie si sia mosso attraverso il canale della comprensione, che non esclude un fondo di identificazione legato alle grandi cose della vita.

 

Il volto di Julie è il volto di un’intera generazione: racchiude un tipo profondamente legato alle recenti evoluzioni sociali, culturali ed economiche del mondo occidentale. Questo è il motore mobile – con buona pace di Aristotele – attorno al quale l’impianto del film si compone. Certo, le sbavature non mancano: sia sufficiente pensare ad alcune prolissità o ad alcuni scambi di battute non completamente convincenti. Il finale, poi, pecca di frettolosità: quantunque godibile, si presenta come un periodo incomprensibilmente ellittico; per certi versi, risulta inutilmente velato da un’ambiguità poco giustificabile. In ogni caso, La persona peggiore del mondo può considerarsi un’opera riuscita e matura, degna di essere ricordata per il proprio carattere generazionale – lampante persino nella traduzione italiana del titolo, che in sé concentra un sentire emblematicamente riconducibile a certe fasce della popolazione. Ad alcuni il linguaggio del lavoro di Trier potrà sembrare incomprensibile o inaccettabile: è pura illusione. Perché Trier, dietro al profilo circostanziale, complesso e sfuggente di Julie, riesce a cogliere anche un’umanità più vasta, accessibile a tutti. In questo senso, le parole intonate da Art Garfunkel nel brano che accompagna lo scioglimento dell’opera risultano imprescindibili. Sfruttando un procedimento retorico che in Italia sarà proprio di Franco Battiato (1945-2021), Garfunkel affastella compositi elenchi di cose e situazioni, concedendo ai suoi ascoltatori soltanto alcuni saldi sostegni. Tra vita e niente, tra vuoto e speranza, ecco le «waters of March», che non cessano di scorrere annunciando, proprio come la primavera che nel mese di marzo ha convenzionalmente principio, un eterno rinnovamento.

 

Tempi brevi e tempi lunghi. Generazioni e genere umano. Temi caldi e verità profonde. Oslo non era mai stata così trasversale.

 

Renate Reinsve

La persona peggiore del mondo (2021): Renate Reinsve

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