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Il legame

Regia di Domenico Emanuele de Feudis vedi scheda film

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La recensione su Il legame

di scapigliato
9 stelle

Apparentemente, il film di de Feudis può sembrare un’accozzaglia di sottogeneri del terrore, dalla casa infestata alla possessione demoniaca, ma è in realtà un ottimo esempio di folk horror. Il sottogenere, inaugurato già negli anni ’60 da alcune pellicole inglesi seminali, il cui capolavoro è il celebre The Wicker Man (Robin Hardy, 1973), si basa sul racconto drammatizzato di leggende o credenze popolari, più o meno accertate, con cui si scontra un personaggio non appartenente alla comunità rurale dove si praticano determinati rituali, sacrifici o qualsiasi altra pratica di origine pagana e incomprensibile per chi viene dalla urbe.

Al di là della forma e delle figurazioni con cui questo genere sta tornando ad interessare la cinematografia mondiale nei primi vent’anni del terzo millennio, è sicuramente interessante soffermarsi su un curioso parallelo: negli anni ’70, il genere poteva sembrare un’allegoria distopica del movimento hippie e il loro ritorno alla ruralità, mentre oggi, causa cambio climatico, potrebbe rappresentare il capovolgimento di un mondo, quello arcaico, bucolico, campestre, a cui si tende per aspirazione etica, generando di conseguenza una riflessione probabilmente reazionaria della filosofia di partenza oppure anche una psicologia al contrario delle resistenze ad un vero cambio epocale della società metropolitana – per altro già attraversato da altre pellicole italiane come Lazzaro felice (Alice Rohrwacher, 2018), Il racconto dei racconti e Pinocchio (Matteo Garrone, 2015; 2019), con cui si può ben parlare di fiabesco, come modo/genere tutto italiano di intendere un nuovo realismo magico. Il legame invece, viaggia piuttosto sui binari dello stregonesco, con cui rappresentare contraddizioni e pulsioni contrastanti delle dicotomie sociali italiane, sintetizzate qui nel dualismo città/campagna.

Il film di de Feudis è brillante su ogni fronte. Figurativamente è incisivo tanto quanto evocativa è la sua iconografia di riferimento, in cui primeggia su tutti il paesaggio pugliese che per effetto contrario esalta anche le architetture domestiche, vecchie, sgombre, decadenti, infine gotiche. Le interpretazioni ben si abbinano a un linguaggio cinematografico più internazionale che trova nel genere horror una sua naturale collocazione. Se inoltre analizzassimo i temi trattati, come le colpe arcaiche, i rapporti famigliari, le tare della marginalità, la sessualità, la mascolinità tossica e altro, troveremmo molti argomenti di discussione. Anzi, il pregio del film è proprio quello di non banalizzare nessuno dei temi trattati, di non sovrapporli maldestramente per renderli sterili nel loro significato, esattamente come i vari topoi dell’orrore che si rintracciano nella pellicola convivono tra loro senza alcun problema narrativo. In più, e basterebbe solo questo, il film scorre benissimo, senza intoppi, senza sbavature, senza nessun ammiccamento al linguaggio televisivo. Fino alla fine siamo immersi in una fantasticheria rurale e meridionale, che non è né sogno né incubo, ma una convivenza perturbante di inspiegabile e comprensibile, di notte e giorno, di ombra e luce, di femminile e maschile.

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