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Risorse umane

Regia di Laurent Cantet vedi scheda film

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La recensione su Risorse umane

di Peppe Comune
8 stelle

Frank (Jalil Lespert) sta effettuando uno stage manageriale in una piccola fabbrica di Gaillon, la stessa in cui lavora il padre (Jean-Claude Vallod) da oltre trent'anni e la sorella. In Francia è appena passata la legge sulle trentacinque ore e nell'azienda è in atto un duro scontro per l'attuazione della riduzione dell'orario di lavoro. Frank ha concentrato i suoi studi proprio sull'impiego delle risorse umane di un azienda e viene incaricato di trovare la migliore soluzione al problema. Ben presto però si accorge che la sua manzione e il lavoro che sta portando avanti, servono come specchieto per le allodole per i "padroni" che a sua insaputa hanno già predisposto una riduzione del personale che prevede anche il licenziamento del padre.

 

 

"Risorse umane" segna l'esordio alla regia di Laurent Cantet e rappresenta il primo importante esempio di film sull'esperienza delle trentacinque ore, che proprio in Francia trovò terreno fertile generando laceranti conflitti tra le parti sociali in causa. Un film molto ben fatto, dove gli elementi di finzione e quelli che documentano i possibili sviluppi sull'applicazione della legge si equilibrano tanto bene da generare adeguate riflessioni sull'argomento. Il tentativo di lavorare per cercare di costruire un futuro migliore si scontra ripetutamente con l'interesse e il cinismo del capitale e Cantet è bravo a caratterizzare ogni personaggio in modo che la sua posizione non risulti caricata di eccessiva partigianeria. Un film sullo scontro generazionale e sul mondo che cambia dove i difetti legati a posizioni meramente ideologiche vengono mostrati senza fare sconti a nessuno. Un certo realismo economico arriva sempre alla conclusione che nei momenti di difficoltà ad essere sacrificata debba sempre essere la posizione dei lavoratori. In realtà questo atteggiamento non risponde ad alcun criterio logico ma è semplicemente il frutto del diverso rapporto di forza che vige tra le parti in causa e trovandosi sempre l'imprenditore in una condizione di indiscutibile vantaggio è naturale che faccia pagare il costo di una crisi a chi sta sotto di lui. Questa consuetudine ha regolarizzato l'accezione padronale dei gestori d'azienda, certificato dal fatto che i diritti scaturiti da numerose lotte sindacali sono più percepiti come gentili concessioni che loro fanno agli operai che come delle norme che sanciscono la vicendevole indispensabilità funzionale all'interno di un azienda. Il problema è soprattutto culturale e le implicazioni politiche e sociali che vi sono legate non troveranno mai un'adeguata soluzione se si seguiterà a dare più credito all'astratto "razionalismo" dei numeri che descrivono arbitrariamente una situazione che alla concreta umanità dei lavoratori che prescrivono un' avvenire buono per tutti. Frank incarna questa complessa sfida culturale. E' assolutamente convinto della bontà della riforma, che "il lavorare meno, lavorare tutti" sia concretamente possibile oltre che potenzialmente vantaggioso per chiunque. A patto che ognuno collabori con lo spirito della legge superando l'idea stereotipata che si ha dell'altro. Solo perchè pranza al tavolo dei dirigenti e porta giacca e cravatta, l'arcigna sindacalista comunista lo taccia di arrivismo e opportunismo mentre i suoi vecchi amici che lavorano in fabbrica lo iniziano a guardare con diffidenza. Il "padrone" (Lucien Longueville), invece, quando Frank prende decisamente in mano le redini della lotta contro i licenziamenti previsti dall'azienda, c' impiega un attimo a cessare di considerarlo un validissimo collaboratore, un' amico che aiuterà a trovare lavoro una volta terminati gli studi e a sbatterlo fuori dall'azienda. Frank è nel mezzo, tra rivendicazioni legittime e diffidenze ideologiche, e credo che la forza del film stia nel fatto che Cantet abbia delineato un personaggio che nei momenti di lotta sa precisamente qual' è la sua posizione ma che intanto si muove con fare analitico rapportandosi con chiunque senza pregiudizi di sorta. E' questo semplice atteggiamento, naturalmente intriso di umana e "giovanile" debolezza, a far emergere per contrasto, sia l'attitudine vampiresca dei padroni del vapore, che la sterilità di una "coscienza di classe" che difetta di anacronismo. Due mondi che rimangono lontani e che non toccandosi mai perpetuano in eterno la vittoria del più forte. Bello ed emblematico è il rapporto contrastato con il padre, che preferisce accettare come inevitabile e immodificabile lo schema padrone-operaio, che lo vedrebbe riscattato socialmente attraverso il figlio che questa volta si è posizionato nella parte più forte dello scacchiere, piuttosto che aderire alla lotta contro chi continua a considerare l'uomo lavoratore come un semplice ingranaggio inserito nei più generali meccanismi di produzione. E' la dignità di un uomo che per trent'anni ha lavorato sulla catena di montaggio, che con orgoglio dice al figlio che la macchina a cui rimane ossessivamente attaccato come al segno più tangibile della propria condizione di operaio produce "settecento pezzi ogni ora". E' la difesa di retroguardia di un mondo che cambia velocemente, che ha bisogno di sempre nuovi strumenti analitici per poter difendere di più e meglio i diritti e le condizioni di sempre dei lavoratori. Un film bello e amaro, ma con una dose di carica utopica che alla fine è bene accetta.

 

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