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American Beauty

Regia di Sam Mendes vedi scheda film

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La recensione su American Beauty

di michemar
9 stelle

Mena Suvari

American Beauty (1999): Mena Suvari

Piovono petali di rose. Il profumo della rosa rossa copre quello che riesce a nascondere, all’occhio e al naso, quindi a ciò che percepiamo. Perché quello che abbiamo percepito nella esistenza quotidiana di una famiglia tipo e tipicamente american non emana un buon odore, è piuttosto l’olezzo che viene dalla vita ipocrita, dallo status raggiunto, dal suv sempre pulito, dai sorrisi prestampati. Copriamo con i petali cremisi il grigio che vogliamo nascondere: American Beautyera in origine American Rose nelle mani dell’autore del soggetto, Alan Ball, che pensava così di stendere il classico velo pietoso sulla famiglia tipo americana contemporanea. L’onda lunga dell’edonismo reaganiano aveva prodotto una società dove l’importante era arrivare, avere una gran bella abitazione, un bel giardino in cui coltivare rose e godersi l’agiatezza. Intanto, queste persone, che si sforzavano di vivere una vita costruita, una volta raggiunto questo obiettivo, si chiedevano nei pochi momenti di lucidità perché non si sentivano felici. Lester Burnham intuisce, proprio nei momenti di massima apatia e profondo grigiore esistenziale, che la via della felicità è finalmente trasgressiva e porta a desiderare l’amichetta procace della figlia, a fumare marijuana, ad ascoltare a palla il rock.
 


Il pugno nello stomaco arriva col guanto e non ti fa male subito, piuttosto ti manda al tappeto lentamente, con un sorriso ebete, come quello ormai fisso stampato sulla bocca di Lester. Il quale dà inizio al film come fece a suo tempo il Joe Gillis de Il viale del tramonto di Wilder: “Mi chiamo Lester Burnham. Questo è il mio quartiere, questa è la mia strada. Questa è la mia vita. Ho 42 anni. Fra meno di un anno sarò morto”.
 
Sam Mendes, che veniva dal teatro, approdava al cinema e neanche il più esaltato regista poteva immaginare di vincere l’Oscar al suo primo film e con il merito di portare al massimo della recitazione un attore come Kevin Spacey, vincitore finalmente come attore protagonista, dopo quello non protagonista del personaggio-cult Keyser Söze. Ma è tutto il cast che vibra e recita all’unisono. Annette Bening, nei panni di Carolyn moglie di Lester,riesce a dare con perfezione chirurgica l’idea di una moglie egocentrica ed egoista, con le sue smorfiette di donna plastificata; Thora Birch e Mena Suvari, finora praticamente sconosciute, sono il frutto inevitabile di quella fascia di borghesia solo apparentemente soddisfatta e infelice: la prima è Jane, silenziosa testimone del disfacimento della famiglia Burnham alla ricerca di stimoli nuovi; la seconda è la sua amica Angela, che sfida un adulto per provare a se stessa e agli altri il suo potenziale erotico. Da contraltare emergono altri due personaggi: il serioso Ricky (Wes Bentley) che con la sua telecamera spia il mondo circostante e ne rivela gli aspetti più ipocriti e tetri, come fosse il nostro occhio spaventato e inebetito e il colonnello Fitts, interpretato alla perfezione dal bravissimo attore, sempre in secondo piano in grandi film, Chriss Cooper, la cui espressione arcigna e la sua rigidità militaresca si sgretolano davanti alla evoluzione dei fatti.

 

Grande, grandissimo film di contenuti, di interpretazioni e di regia, scritto con la sceneggiatura implacabile dall’autore del soggetto, Alan Ball.

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